lunedì 15 luglio 2013
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Una delle operazioni più curiose, per chi non vive in campagna, è il pirodiserbo dell’insalata. Dopo il raccolto, vedi una macchina percorrere il campo trascinando un’apparecchiatura da cui fuoriescono decine di fiammelle che abbrustoliscono tutto quel che resta dei cespi appena tagliati. Non che avvenga sempre, men che meno nell’orto sotto casa; tuttavia, è una prassi per la produzione industriale dell’insalata ed è antica quanto l’uomo. Letteralmente. Come ci spiega Gaetano Forni, del Museo di agricoltura di Sant’Angelo Lodigiano, nel volume Le insalate (Coltura & Cultura, pagine 616, euro 69,00); il quale addirittura situa la genesi della moderna agricoltura non tanto e non soltanto nel momento in cui l’uomo mesolitico imparò a padroneggiare l’acqua, ma, ancor prima, quando il suo progenitore paleolitico divenne signore del fuoco. Osservando che nelle aree colpite dagli incendi spontanei, provocati dai fulmini, si sviluppava una vegetazione novella, freschi germogli edibili, l’uomo apprese a incendiare boschi e steppe. Dall’ignicoltivazione all’agricoltura propriamente detta il passo è relativamente breve, anche se per compierlo furono necessarie centinaia di migliaia di anni; ma le tracce di quei comportamenti si conservano ancora oggi in Australia, popolatasi in coincidenza con questi processi, tra 25 e 30mila anni fa, e rimasta lungamente isolata, impedendo la contaminazione tecnologica di quelle conoscenze. Racconta il Forni: «Abel Tasman, l’esploratore olandese che diede poi il suo nome alla Tasmania, riferisce nel 1644 di aver rilevato “fuoco e fumi lungo tutta la costa”» australiana e «l’etnografo Jones meticolosamente documenta che gli aborigeni incendiano la boscaglia durante la stagione secca. In tal modo viene eliminata tutta la vegetazione non resistente al fuoco e le spoglie morte: cortecce, rami, mentre gli alberi, gli eucalipti, si abbrustoliscono soltanto. Infatti questi subito dopo, e più efficacemente durante la stagione delle piogge, emettono nuove foglie e germogli. Egualmente, poiché l’incendio esplode in modo rapido e in breve tempo si estingue, i semi delle erbe annuali sfuggono alla combustione e le radici di quelle poliennali non vengono danneggiate, così che, dopo le piogge, gli eucalipti rigermogliano mentre i semi delle erbe annuali germinano. Tra queste, quelle dotate di foglie commestibili, tenere, di gusto gradevole, che noi chiamiamo insalate». Questo sviluppo è solo parzialmente intenzionale e comunque gravido di conseguenze socio-culturali di più ampia portata. Prosegue infatti l’etnografo: «Con il passar del tempo si sono formati anche estesi pascoli in cui predominano le Poacee e proliferano gli animali erbivori, i canguri in particolare. È presumibile che tali radure si siano costituite anche dove la vegetazione originaria non era composta da piante adattate al fuoco, ad esempio quella in cui predominava il sottogenere Nothofagus. Quindi gli Aborigeni, dopo le piogge, su queste aree in cui dopo l’incendio si sviluppava una florida, molto appetibile vegetazione anche per la selvaggina erbivora, potevano cacciare e anche catturare animali, con facilità e in abbondanza». Questa simbiosi uomo, erba, eucalipti, canguri, basata sugli incendi periodici, risalirebbe a trentamila anni fa, cioè al periodo in cui secondo Vittorio Maconi, l’uomo arriva a popolare l’Australia. Una simile genesi rivela come dietro al più semplice e banale dei prodotti, quello che per antonomasia si presta a gratificare le capacità culinarie dei più incapaci – purché rispettino almeno la “legge insalatesca” del Castelvetro: «Insalata ben salata, poco aceto e ben oliata» – si nasconde un compendio di storia e agronomia che val la pena di raccontare. Il volume in questione affida quest’onere a 68 autori, tra botanici e giornalisti, gastronomi e storici, economisti e nutrizionisti. Uno dei contributi è firmato da Carlo Cannella, il compianto presidente dell’Istituto nazionale della Nutrizione. Quello sulle virtù alimentari dell’insalata è stata l’ultima fatica di questo grande divulgatore della scienza. Ma torniamo alla scoperta del fuoco. Oggi se ne fa un uso “scientifico”, nel senso che si incendiano i residui del raccolto per evitare che restino in campo gli inoculi per funghi e altri patogeni e quindi per abbattere i costi degli agrofarmaci che si utilizzano durante la coltivazione e incrementare le rese; ma la storia dell’agricoltura è ricca di queste conquiste della conoscenza, che la tecnologia ha ottimizzato solo in seguito. Com’è avvenuto attraverso lo sviluppo delle tecniche di raccolta, grazie alla creazione della cosiddetta catena del freddo che permette di trattare anche vegetali delicatissimi come le foglioline novelle di insalata (le baby leaf) senza mai spostarsi dai quattro gradi centigradi e questo anche quando le distanze dal campo allo scaffale del supermercato si misurano in migliaia di chilometri.
 
Quest’evoluzione, che negli ultimi anni ha permesso all’insalata di intercettare gusti e stili di vita e conquistarsi un posto di primo piano sui mercati internazionali, viene raccontata nel volume attraverso tutti i suoi aspetti. Si parte dalla storia, con Renzo Pellati, dell’Accademia italiana di cucina, che rilegge per noi il De re coquinaria di Apicio e disserta sulla parentela tra il moretum di Virgilio e l’erbazzone di oggi, e si approda ai ricettari moderni, senza tralasciare le curiosità – la rucola non è un’invenzione degli anni Ottanta, era apprezzatissima dagli antichi romani – ma la maggior parte dei contributi fa luce sugli aspetti botanici, agronomici e fitopatologici che interessano le diverse varietà di insalata coltivate in Italia e nel mondo. Comprese le insidie che possono nascondersi in una foglia di insalata, come l’accumulo di nitrati (cancerogeni) e le tecniche utilizzate dagli agricoltori per prevenirlo.
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