martedì 3 aprile 2018
Aheam Ahmad sfuggito ai bombardamenti nel suo Paese, oggi emigrato in Germania: «Mi hanno distrutto il pianoforte. Se penso alla mia terra mi viene da piangere: ora tutto dipende dalle grandi potenze»
Aeham Ahmad, il pianista siriano che combatte il Daesh con la musica

Aeham Ahmad, il pianista siriano che combatte il Daesh con la musica

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La foto scattata mentre suonava il piano tra le macerie di Damasco è diventata virale su You Tube, e grazie ai contatti che ne sono scaturiti Aheam Ahmad ha potuto fuggire dai bombardamenti e arrivare in Germania, dove l’hanno raggiunto la moglie e i due figli. Ora il racconto della sua vita in Siria, di come il suo talento per la musica gli garantisse un futuro di successo, del suo sogno distrutto dalla guerra e della sua coraggiosa resistenza fino a quando, in pericolo di vita, ha intrapreso il pericoloso viaggio verso la salvezza, è diventato un libro di forti emozioni: Il pianista di Yarmouk (La Nave di Teseo, pagine 348, euro 20) che uscirà giovedì in concomitanza con la presentazione a Milano alle 18,30 presso la Civica Scuola di Musica Claudio Abbado, dove l’autore, trentenne, sarà introdotto da Andrea Melis e Giuseppina Manin. Venerdì sarà al Circolo dei Lettori di Torino, alle 21, con Domenico Quirico.

Yarmouk è un quartiere di Damasco a maggioranza palestinese: può spiegare ai lettori italiani le sue origini familiari?

«Mio nonno arrivò in Siria come rifugiato palestinese nel 1948, proveniente da un villaggio nel nord d’Israele. Attraversò il Giordano con mia nonna su un asino, e mio padre nacque in Siria. Si stabilirono a Yarmouk, che all’inizio era un campo profughi per palestinesi, poi è diventato un quartiere di Damasco anche abbastanza alla moda, con tanti negozi e locali. Noi però, sotto il regime di Assad, non abbiamo mai avuto un passaporto e non potevamo espatriare. Quanto alla mia identità, io sono qualcosa tra il palestinese e il siriano, in Europa sono considerato apolide benché ora abbia un visto che mi permette di andare nell’area Schengen, in Gran Bretagna e in Giappone».

Il racconto della sua infanzia ha come grande protagonista suo padre, un uomo straordinario che l’ha tenacemente spinto a studiare musica e benché fosse cieco ha saputo propiziare il suo futuro , aprendo un negozio di musica e poi una fabbrica di liuti. Può essere che la stessa cecità di suo padre abbia favorito l’instaurarsi di un legame speciale fra di voi?

«Non è tanto per la sua cecità, da bambino non capivo bene che cosa vuol dire essere ciechi, benché quando uscivamo insieme toccasse a me tenerlo per mano e guidarlo, a volte con qualche incidente! Quello che ha avuto più influenza su di me è la sua personalità e il ruolo particolare che aveva in famiglia. Mia madre faceva l’insegnante mentre mio padre lavorava in casa, così in un certo senso mi ha fatto lui da madre. Lui suonava il violino e mi ha insegnato ad amare la musica, benché all’inizio non fossi tanto docile, allora per invogliarmi a suonare il pianoforte mi faceva dei regalini, e andava a parlare con gli insegnanti se sorgeva qualche problema».

Nel bel mezzo della guerra lei ha composto centinaia di canzoni facendo cantare un coro di ragazzi per levarli dall’orrore quotidiano: come nasce la sua musica, che unisce lo studio degli autori occidentali con le melodie arabe?

«L’educazione musicale dell’Università mi ha insegnato a comporre, ma le parole e il canto vengono dal cuore. La musica della nostra cultura segue un’unica linea armonica, basata su semitoni e i testi sono ricchi di immagini e allegorie. La mia combinazione tra lo stile musicale occidentale e il modo di cantare arabo crea un’atmosfera molto speciale, lo vedo nei tanti concerti che tengo in Europa: il pubblico resta avvinto anche se non capisce le parole, perché si diffonde un riverbero emozionale».

Lei scrive di aver desiderato sin da giovanissimo di sposarsi e avere dei figli, forse perché viveva in una famiglia molto legata e piena di amore?

«Certamente questa è una ragione, ma sposarsi precocemente fa parte della nostra cultura. Se tu non trovi un partner entro i vent’anni, la gente penserà che ci sia in te qualcosa che non va. Vedo che in Europa è differente, anche per quanto riguarda la scelta, perché in Siria di solito ci affidiamo ai nostri genitori, che si adoperano per trovare il partner più adatto ai figli».

Nel 2015 il Daesh ha occupato il suo quartiere: da allora lei è stato preso di mira, ha dovuto chiudere il negozio e la fabbrica, hanno bruciato il pianoforte, simbolo della sua resistenza, e ha dovuto affrontare mille pericoli attraverso la rotta balcanica che l’ha portata in Germania. Sono però rimasti a Yarmouk i suoi genitori, quindi seguirà con molta ansia le sorti della guerra. Come giudica la situazione attuale?

«Quando alla Tv vedo quello che succede a Ghouta e in altre parti della Siria mi viene da piangere. È una guerra di posizione: Assad, Putin, Erdogan, i curdi, gli Usa, il Daesh e altri gruppi si combattono tra loro, e chi soffre di più? I civili, i bambini, che non hanno nessuna possibilità di scampo e nessuno li ascolta. Per questo io suonavo per le strade, per far sentire la nostra voce. Ma non ci sarà mai pace, finché le grandi potenze non lo decideranno. I veri eroi di questa guerra non sono i soldati ma i Caschi Bianchi, i volontari del Servizio Civile internazionale che dopo i bombardamenti corrono fra le macerie per salvare vite umane».

Che cosa pensa dell’ondata di migranti che si riversa in Europa, si potrà realizzare una vera integrazione?

«Vorrei fare una distinzione fra migranti e rifugiati. Io sono un rifugiato e ho lasciato la mia terra perché ero in pericolo di vita e ho rischiato di rimanere ucciso da una bomba. Ma del resto tutti abbiamo dei problemi: rifugiati, migranti, italiani… tutti. Quanto al mio futuro, non so che cosa accadrà, probabilmente resterò un migrante per il resto della mia vita, non credo di poter mai tornare a casa. Però davvero bisogna ringraziare gli Europei per il supporto e l’aiuto offerto a rifugiati e migranti, è un grandissimo impegno e comporta tanti problemi. Non sono tutti angeli quelli che arrivano. Ci sono fondamentalisti che sfruttano la nostra situazione per importare odio e violenza, ma la maggior parte di noi è gente normale, con i suoi problemi, e vuole vivere in pace». E il suo libro vuole essere un messaggio di pace, scritto per ricominciare a vivere dopo tanta sofferenza: «Voglio cancellare il nero che mi porto dentro».

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