sabato 24 febbraio 2018
Parla l'autrice danese che nel suo romanzo racconta il viaggio dalle Fær Øer a Copenaghen: «Una storia oggi dimenticata e che invece ci aiuta ad affrontare il presente». Milano, festival "I Boreali"
La scrittrice danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen

La scrittrice danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen

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La prima generazione parte, la seconda mette radici, la terza inzia a sentire nostalgia per un posto che non ha mai conosciuto ma che, anche a distanza di anni, si continua a chiamare “casa”. Pur senza ergersi a regola immutabile, lo schema si ripete in molte storie di migrazione e, nella fattispecie, sta all’origine di Isola (traduzione di Maria Valeria D’Avino, Iperborea, pagine 224, euro 17,00), il romanzo che la scrittrice danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen ha presentato a Milano nell’ambito del festival di letteratura nordica “I Boreali”. «Sì, la mia è anzitutto una riflessione sull’identità storica e individuale – ammette l’autrice – e l’isola mi sembra una buona immagine per alludere a questa ricerca. A patto che ci si riferisca a un’isola mobile, fluttuante, che viaggia con noi e nello stesso tempo è nascosta nella nostra interiorità». Il viaggio, in questo caso, è meno lungo di quanto si potrebbe sospettare, ma non è meno difficile da affrontare. Nel libro si ricostruisce infatti il trasferimento di due giovani, l’irrequieto Fritz e la volitiva Marita, da Suðuroy, la più meridionale delle isole Fær Øer, a Copenaghen. Siamo negli anni Trenta, l’Europa è in tumulto, ma quello che i due fidanzati portano con sé è un piccolo mondo di tradizioni arcaiche e di fatica secolare, di interminabili partite di pesca e di silenzi caparbi. Un microcosmo che la loro nipote, che di Isola è la voce narrante, cerca di riscoprire arricchendo con la propria immaginazione le reticenti memorie di famiglia.

Come mai ha scelto un punto di vista così personale?

«Ho voluto affidarmi al potere del racconto – risponde Siri Jacobsen –, interrogandomi sul ruolo che la famiglia riveste nell’identità di ciascuno di noi. A partire dagli anni Sessanta i cambiamenti sociali sono stati molto rilevanti, nei Paesi scandinavi come nel resto del mondo si è instaurato un diverso sistema di valori, gli stili di vita hanno subìto trasformazioni a volte impressionanti. Nonostante questo, la mia sensazione è che l’importanza della famiglia non sia mai venuta meno. Basta guardare a quanto accade durante le migrazioni. Le differenze tra padri e figli tendono ad accentuarsi, tavolta è come se non si parlasse più la stessa lingua, ma non per questo si smette di sentirsi parte della famiglia, perfino quando una famiglia a cui appartenere sembra non esserci più».

Come mai le migrazioni dell’Europa settentrionale sono così poco conosciute?

«Tutti i Paesi scandinavi condividono una lunga storia di migrazioni verso l’esterno (verso gli Stati Uniti, per esempio) che oggi non trova più spazio nel discorso pubblico. Da una quindicina d’anni in qua pare che nulla di tutto questo sia mai accaduto. I politici preferiscono non parlarne, così come hanno deciso di ignorare che le nostre società, nel loro assetto attuale, sono il risultato di un imponente processo di migrazione dalla campagna alla città. Questa mancanza di memoria storica è molto preoccupante, perché mai come oggi avremmo bisogno di portare alla luce le molte sfaccettature tipiche della cultura della migrazione».

A che cosa si riferisce?

«Al fatto che i problemi di cui tutti noi siamo testimoni in questo periodo sono reali e vanno affrontati con la maggior consapevolezza possibile. In caso contrario, c’è il rischio, sempre meno remoto, che finisca per prevalere la retorica dell’intolleranza. Anche in un Paese come la Danimarca, dove la presenza dei migranti è decisamente limitata e comunque incomparabile rispetto a quanto si verifica in Italia, si stanno moltiplicando le espressioni di ostilità, fomentate da quanti vogliono farci credere che ci sia in corso un’invasione e che si debba intervenire al più presto, con determinazione, prima che sia troppo tardi».

Sono paure diffuse, purtroppo.

«E che non vanno trascurate. Dobbiamo sforzarci di comprenderne il motivo, piuttosto, e agire di conseguenza. Prendiamo la Danimarca, di nuovo. La classe operaia si è trovata ad affrontare una serie di trasformazioni rapidissime, alle quali non era in alcun modo preparata. Il mercato del lavoro si impoverisce, il sistema del welfare vacilla e la tentazione di accollarne la responsabilità ai migranti è fin troppo forte. Peccato che non siano stati i migranti ad aprire le porte del Paese alle multinazionali o a privatizzare il servizio sanitario. E strano che, quando si parla delle minacce della globalizzazione, si punti sempre il dito contro le persone che cercano di attraversare un confine mentre, nello stesso istante, le speculazioni finanziarie si svolgono già in un mondo letteralmente privo di frontiere. O le cui frontiere, se si preferisce, non sono controllate da nessuno».

Anche la tendenza all’indipendentismo si spiega in questo modo?

«Il quadro è più complesso, credo. Mi considero un’europeista convinta, ma proprio per questo sono propensa a credere che lo Stato nazionale, in questa fase storica, non rappresenti più una risposta adeguata. Abbiamo bisogno di forme di convivenza diverse rispetto a quelle sperimentate in passato. So che può essere considerata un’utopia, ma l’ipotesi degli Stati uniti scandinavi non andrebbe scartata troppo frettolosamente. Le Fær Øer, poi, rappresentano un caso a sé: godono già di una parziale autonomia rispetto alla Danimarca, ma non appartengono all’Unione Europea. Il desiderio di piena indipendenza può essere comprensibile, purché questa eventuale emancipazione non si trasformi in solitudine. Un ragionamento analogo vale per la Catalogna, per la Scozia e per tutte le regioni che vivono ormai con difficoltà la loro appartenenza a uno Stato nazionale. Chiedono di essere più libere, il compito dell’Europa è di fare in modo che non si ritrovino sole».

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