martedì 16 giugno 2015
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Correva l’anno1933 e per un giovane scultore veneto (iscritto all’Opera della regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, come pure all’Associazione delle settimane eucaristiche), la vita segnava una svolta. L’artista, allora trentatreenne, aveva studiato prima a Conegliano, poi a Venezia, dove nel ’29 si era diplomato in scultura all’Accademia. A quella data, s’era già fatto notare: per la sua prima opera in marmo, una testa di giovinetta (L’anima e la sua veste, ammirata da Aldolf Wildt) e per una statua dal titolo la Volata (un atleta lanciatore di palla, in perfetto stile classico, destinazione il Foro Mussolini a Roma) con la quale aveva vinto un concorso, salvo poi esserne escluso perché non iscritto al partito fascista. Si racconta che proprio quel fatto oltre a ferirlo profondamente, accelerò la sua scelta definitiva verso il convento e l’arte sacra. Così il professor Riccardo Granzotto avrebbe continuato a scolpire come fratel Claudio: era appunto il ’33 e, dopo aver incontrato il provinciale dei Francescani minori, il 27 novembre iniziava la sua nuova vita. Un percorso che l’avrebbe portato dopo il probandato e il noviziato a emettere i voti temporanei nel ’36 e la professione solenne nel ’41, morendo poi dopo soli sei anni, il 15 agosto ’47, in fama di santità. Al futuro Giovanni Paolo I, allora vescovo di Vittorio Veneto l’apertura della causa, nel ’59; a Giovanni Paolo II la beatificazione, nel ’94, con la gratitudine all’artista per aver saputo «esprimere la contemplazione dell’infinita bellezza divina nell’arte della scultura, [..] rendendola strumento privilegiato di apostolato e di evangelizzazione». E l’esempio al quale associare, oggi, il ricordo di Granzotto - frate che lavorava il marmo lasciandosi lavorare da Dio - ci viene offerto da quello che anche per lui fu il suo capolavoro: un Cristo deposto sul lenzuolo a figura intera, oggi nella chiesa di San Francesco a Vittorio Veneto, con il corpo esanime di Gesù che sembra sul punto di riprendere vita. Quest’opera singolare, in diafano marmo di Carrara, era nata nel cuore dell’artista già nel 1933, anno del giubileo della redenzione voluto da Pio XI e di una nuova ostensione, dal 24 settembre al 15 ottobre, della Sindone.Anche Granzotto aveva raggiunto Torino dichiarando poi di sentirsi folgorato dal Sacro Telo: come credente e come artista. Se è vero che «contemplando la Sindone» lo scultore aveva già «maturato la preghiera di una visibile opera dove la capace sintassi linguistico espressiva doveva aspirare a far propria la ieratica icona che prende corpo dalla filigrana del sacro telo» (così ha scritto Mariano Apa nel nuovo numero di Rocca, la rivista della Pro Civitate di Assisi), è altrettanto vero che per il Cristo della Sindone, Granzotto chiese poi pareri a monsignor Polvara della Scuola Beato Angelico a Milano; si concentrò sugli album con le foto di Enrie; su L’imitazione di Cristo allora attribuita a Tommaso da Kempis e su La dolorosa Passione del Nostro Signore Gesù Cristo, di Anna Katharina Emmerick. Si informò leggendo volumi come quello del Tonelli La Santa Sindone o del medico Judica Cordiglia L’uomo della Sindone è il Cristo?. Così analizzata a lungo l’immagine sindonica nelle sue diverse componenti, grazie anche alla sua padronanza dell’anatomia umana, diede lentamente concretezza al suo desiderio di riprodurre quella figura, secondo lo scopo ribadito anche in una lettera al successore di papa Ratti, Pio XII, «quello di dimostrare all’umanità ancora una volta il grande amore che Cristo portò per noi mettendo in rilievo le sue immagini; rilevate dalle impronte lasciate nei sacri lini». E lo fece preoccupandosi non solo di portare in rilievo l’immagine della Sindone e rendendola tridimensionale (quando non esistevano computer), ma radicandola dentro di sé (nella preghiera, nella fedeltà alla vita religiosa, infine nell’accettazione della sofferenza). La statua fu inaugurata nel 1941 e documenta la maturità artistica di fra Claudio, ma anche il culmine del connubio in lui tra arte e fede palesato da un’immagine che «non è una raffigurazione, non è una descrizione, non è un’evidenza naturalistica: è una vera icona: preghiera visualizzata». Quando concluse la scultura, il beato Granzotto così confidò ai confratelli: «Sono state più le ore di preghiera che i colpi di martello sul marmo». Una preghiera che, alla fine, lo ha portato a interpretare, partendo dalla Sindone, non il corpo di un Cristo morto, bensì, già quasi vincitore della morte. Anzi, come è stato scritto, «un attimo prima della Risurrezione». Un corpo perfetto, leggero, disteso, ma senza i segni della passione, a lungo studiati, se non le stigmate alle mani, ai piedi, al costato: i segni non cancellati nel Risorto.
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