giovedì 12 dicembre 2019
1475: pagina nera della Chiesa trentina che mise al rogo la locale comunità ebraica accusandola di aver usato un bimbo per un sacrificio rituale di sangue. Dal culto alla sua esclusione dal calendario
«Compianto sul corpo di Simonino da Trento» (XVI secolo, bottega di Daniel Mauch)

«Compianto sul corpo di Simonino da Trento» (XVI secolo, bottega di Daniel Mauch)

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Immaginate la scena: nel giugno del 1961 un’esile insegnante di lettere di Trieste, ebrea, si reca a Trento e chiede di parlare con un importante monsignore del Duomo per chiedere che la Chiesa faccia indagini sulla verità storica del santo locale chiamato appunto san Simonino da Trento venerato in città da circa cinque secoli. Improbabile? Eppure è quel che è successo. Non perché alla triestina Gemma Volli stesse a cuore il calendario liturgico cattolico ma perché quel culto era fondato, per così dire, su una clamorosa fake news, o meglio su un grave errore giudiziario voluto e intenzionalmente perseguito (per bieche ragioni di potere) ai danni di un’intera comunità ebraica, una ventina di ebrei, uomini e donne, collettivamente accusati – siamo nel 1475 – di aver ucciso un bimbo di poco più di due anni per estarne il sangue da usare nei riti della Pasqua ebraica. Processati, torturati e mandati al rogo (gli uomini); torturate e messe in carcere per anni (le donne, finché o morirono o si convertirono); elevato agli onori degli altari, con un mare di presunti miracoli, quell’ignara, infelice creaturina che divenna per quasi 500 anni un simbolo della storia del pregiudizio antigiudaico di matrice cristiana.

Una storia assurda? Non col senno di allora, dato che a partire dal 1071, nella valle della Loira, si era diffusa voce che gli ebrei uccidessero i bambini cristiani durante la settimana santa; poi venne il caso Norwich, in Inghilterra: altro bambino trovato morto e il solito capo espiatorio ossia gli ebrei. I casi si moltiplicarono nei decenni successivi: in Germania, in Boemia, in Spagna, in Italia. Una macchina del fango ormai ben oliata e rodata, che a Trento fece sì che il corpo del bimbo fosse esposto nella chiesa di San Pietro la sera stessa del suo ritrovamento e che il giorno dopo avesse già operato dei miracoli. Mentre gli ebrei venivano torturati e poi giustiziati sul rogo (le autorità bruciarono in pubblico anche il più anziano, Moshe, già morto in prigione sotto le sevizie), sul caso scoppiò la guerra tra autorità: da un lato il vescovo-principe tridentino, il tedesco Johannes Hinderbach, vero regista di questa canonizzazione per acclamazione popolare (eloquente caso di populismo religioso) che accresceva il suo prestigio, e dall’altra lo stesso papa, Sisto IV, che non credeva in questa accusa antiebraica e che mandò un legato nella persona del vescovo domenicano Battista de’ Giudici a verificare i fatti, ordinando la sospensione dei processi agli imputati minori.

Fu un conflitto sulle procedure giuridiche, sulle competenze canoniche e, un poco, anche sulla verità di quell’accusa. Nonostante nell’ottobre del 1475 Sisto IV avesse vietato esplicitamente di dare a Simone di Trento il titolo di “beato” e di dichiarare che era stato ucciso dagli ebrei, quel culto di propagò con velocità e l’immagine del bimbo in veste di neo-martire, complice l’efficienza di una nuova tecnologia (la stampa da poco inventata), si diffuse tra la gente contribuendo alla nascente giudeofobia moderna. Come spiega lo storico del diritto Diego Quaglioni, che ha studiato e pubblicato i verbali del caso: «I processi contro gli ebrei di Trento sono decisivi, nella transizione alla prima modernità, per la fissazione degli stereotipi antigiudaici in un nuovo paradigma, miscela efficacissima di parole e immagini, di testi di propaganda e di scritti di dottrina, in una tipica combinazione di odio teologico e odio sociologico».

Se questi sono i tragici inizi del caso, quasi cinquecento anni dopo il cerchio si chiude: la conversazione della maestra triestina colpì la mente e il cuore di Igino Rogger, prete sì ma anche onesto storico della Chiesa locale, che ne parlò al vescovo e cercò uno collega esperto affinché facesse luce sulle origini di quel culto popolare e cercasse la verità. Lo trovò nel domenicano Willehad Paul Eckert, che si era già occupato di un caso analogo, quello del piccolo Werner di Bacharach, nella diocesi di Treviri, anno 1287. La ricerca coincise con l’apertura del Concilio Vaticano II e la rivoluzione di Giovanni XXIII, che aveva abolito l’ingiurioso “perfidi giudei” dalla liturgia del venerdì santo. L’esperto confermò e denunciò le pesanti distorsioni presenti nella procedura inquisitoria del tribunale trentino e di fatto invalidò conclusioni e sentenze, delegittimando di fatto quel culto, che la Congregazione vaticana dei riti, in base al vigente diritto canonico, rimosse il 4 maggio 1965. A ottobre, negli stessi giorni in cui a Roma Paolo VI chiudeva il Concilio, il vescovo di Trento Alessandro Maria Gottardi, con coraggio ma non senza prudenza nei toni, dichiarò definitivamen- Bottega di Daniel Mauch, “Compianto sul corpo morto te abolito il culto del piccolo Simone.

La verità storica aveva prevalso dopo quasi cinque secoli, il pregiudizio veniva alla luce e percepito come falso e inaccettabile, gli ebrei erano finalmente scagionati. Fu l’inizio di un lento ma progressivo processo di riavvicinamento tra mondo cattolico e mondo ebraico. Il museo diocesano tridentino ha creduto che fosse ora di rivisitare, con un’ampia mostra iconografica e con forti intenti pedagogici, tutta questa lunga storia. Un’indagine in loco ha mostrato infatti che tutti hanno sentito parlare del Simonino ma pochi sanno davvero cosa sia successo. Alla mostra è stato dato un titolo forte ma che coglie nel segno: L’invenzione del colpevole. Il “caso” Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia. Del resto, dopo la rimozione e la sepoltura in luogo nascosto dei resti mortali del “santo abusivo”, è proprio nel museo diocesano che sono confluiti i cimeli testimoni della vicenda: l’urna, i dodici stendardi usati nelle storiche processioni, i reliquari del sangue (!)... Nel tempo si erano persino “rinvenute” le tenaglie, le bende e gli spilloni che, grazie alle stampe, si erano creduti necessari per il martirio.

Tra gli scopi della mostra, dice la direttrice del museo Domenica Primerano, c’è quello di sucitare «una riflessione responsabile circa le terribili conseguenze che pregiudizi, stereotipi, meccanismi di esclusione del “diverso” comportarono e comportano tuttora. Questa storia ci consegna un severo monito che sarebbe colpevole ignorare». Preparata con il contributo scientifico di molti docenti dell’università di Trento, l’esposizione si offre anche come un intricato itinerario nelle credenze popolari, sempre sospese tra bisogno autentico di fede e rischi di superstiziosi e manipolabili fideismi, come attesta quell’incredibile galleria di ex voto e di “miracoli” ufficiali, di cui 129 regolarmente registrati: un affresco delle miserie fisiche e spirituali, delle angosce e delle speranze del genere umano, un puzzle antropologico che si è venuto componendo sopra una tragedia collettiva mai dimenticata nella storia ebraica. Ma come reagirono gli ebrei, ci si è chiesti, in quei frangenti?

La storica Anna Foa, nel ricco catalogo della mostra, ci offre alcune risposte: «Le comunità ebraiche ashkenazite si impegnarono con tutte le loro forze per salvare gli ebrei trentini. Si organizzarono nella corte milanese come a Rovereto (allora parte della Repubblica di Venezia) e si impegnarono a fondo, con tutti i mezzi che avevano, per liberare gli arrestati, soprattutto le donne, e per farsi consegnare i bambini, e ottenere da Roma [dal papa] la sconfessione di Hinderbach». Anna Foa ci ricorda in particolare la vicenda dell’ebrea Brunetta, la più anziana delle arrestate, che, pur torturata e sottoposta a un’indegno rito ordalico, non confessò un delitto che gli ebrei non avevano commesso. Brunetta morì in carcere e i suoi aguzzini dissero che, in articulo mortis, si era convertita alla fede cristiana e fu «miracolosamente battezzata». Ennesimo miracolo del Simonino? Ma il suo nome tra gli ebrei battezzati, attesta un documento inviato a Roma, non c’è. Anche questa vicenda di resistenza è parte integrante del “caso”.

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