venerdì 1 settembre 2023
Parla il direttore della Pilotta, a Parma, completamente rinnovata dopo sei anni di lavori: «Il nostro compito è decostruire il patrimonio e rileggerlo per capirlo, e capire noi stessi, meglio»
Simone Verde nel Museo Bodoni, parte del Complesso monumentale della Pilotta, a Parma

Simone Verde nel Museo Bodoni, parte del Complesso monumentale della Pilotta, a Parma - Giovanni Hanninen

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Simone Verde solca la Pilotta evidenziando ogni singolo intervento: le sale riallestite, gli ambienti recuperati, le (moltissime) opere restaurate, le sorprese dai depositi, il particolare illuminotecnico. Sono il frutto di sei anni di lavori, nei quali il direttore del Complesso monumentale della Pilotta si è gettato appena arrivato a Parma nel 2017. Un rinnovamento totale, partito dalla rigenerazione del rapporto dell’edificio con la città e dal risanamento di situazioni di degrado, che ha portato ad ampliare del 30 per cento la superficie espositiva. All’inizio dell’estate sono stati aperti al pubblico la Galleria del Teatro Farnese, l’Ala Nord alta, la Passerella Farnese e il Medagliere ducale. A fine settembre l’ultimo atto, con il riallestimento del Museo Archeologico Nazionale. Ogni dettaglio è parte di una visione complessa, la cui chiave è una revisione museografica e storiografica, oltre le convenzioni e l’italocentrismo tipici della nostra storia dell’arte e in generale della cultura, per adottare un’ottica di storia globale, prospettiva attraverso cui era costruita anche la mostra dedicata ai Farnese del 2022.

«È essenziale – spiega Verde – che il museo si ripensi, a partire dalla sua storia. La Pilotta nasce storicamente come museo di musei e con una ambizione enciclopedica che, per via della natura delle sue collezioni, non poteva mantenere». La Pilotta ha le sue origini nella dimensione collezionistica – in primis quella farnesiana – e nella passione archeologica dei Borbone e si organizza poi attorno a un vero e proprio culto accademico e localistico di Correggio. «Sono tutti elementi che possono e devono essere raccontati, non esiste un museo assoluto». Tra i direttori della riforma Franceschini, Verde è forse tra quelli intellettualmente più agguerriti. Ha studiato filosofia teoretica tra Roma e Parigi, ha un dottorato in antropologia dei beni culturali ed è diplomato in museologia e storia dell’arte all’École du Louvre. È autore dei volumi Le belle arti e i selvaggi. La scoperta dell’altro, la storia dell’arte e l’invenzione del patrimonio culturale (Marsilio, 2019) e Voltare pagina. Sei musei sfidano le crisi globali (con Paolo Conti, baldini+Castoldi, 2022).

Sembra esserci un doppio binario nel ridisegno della Pilotta: da una parte un racconto delle varie contemporaneità che il museo ha vissuto; dall’altra un museo che si ritrasforma per raccontare le collezioni nella propria contemporaneità.

Si tratta di far capire che l’opera d’arte non è un feticcio, oggetto di venerazione passiva da parte di adepti scolarizzati, ai quali è stato inculcato il senso superiore, universale di quei valori. Il museo è un luogo di emancipazione, in cui scopriamo perché siamo diventati in un certo modo. Il nostro compito, attraverso la storia delle collezioni, è di decostruire quei valori. Che non vuol dire abbatterli, ma far capire che una certa lettura estetica sta dentro una visione culturale storicamente connotata, della quale gli oggetti sono i vettori. Si apre così un campo di possibilità e soprattutto si cresce come persona. In fondo è la scommessa della Rivoluzione francese quando inventa i musei dopo l’ondata iconoclasta.

Musei nati però con una vocazione universalistica che in una istituzione moderna appare non più sostenibile.

Non è detto. Un museo, se è davvero un centro di ricerca, ha un valore universale nella misura in cui impiega gli oggetti nelle sue collezioni come documenti per interrogarsi, a partire da quel preciso territorio, su questioni universali. Il problema è che in Italia i musei sono stati concepiti in origine come depositi delle Sovrintendenze, dove il pubblico si inchinava davanti all’attività scientifica della burocrazia statale. Certamente i musei sono il luogo in cui si restituisce al pubblico il frutto della ricerca. Ma il valore sociale passa per gli allestimenti, il cui significato è tutto fuorché accessorio. Si pensi agli allestimenti di Scarpa, affascinanti ma oggi museologicamente inadeguati, emblematici di una certa modernità industriale che trasforma i musei in istituzioni per colletti bianchi.

Che tipo di impegno economico ha comportato la rinascita della Pilotta?

Ho adottato una politica di interventi minimi, in economia, per agire rapidamente su una situazione che appariva estremamente problematica. Il grosso degli interventi è stato reso possibile dal finanziamento di Parma Capitale italiana della cultura, due milioni di euro. Quindi i ricavi della bigliettazione, finanziamenti ad hoc di fondazioni, grandi aziende, associazioni, singoli donatori. In questi anni abbiamo speso circa 5 milioni di euro per ridare dignità alla Pilotta.

Il rapporto pubblico privato in Italia è questione dibattuta. Qual è il suo punto di vista?

In Italia si fa sempre molta ideologia, mentre il rapporto pubblico-privato deve essere pragmatico. È giusto che il privato abbia visibilità, non c’è nulla di scandaloso. Questo però non deve orientare le finalità del museo. Arrivando dalla Francia si nota bene il problema italiano. Oltralpe lo Stato ha una autorevolezza tale che quando arriva il privato, entra in punta di piedi e chiede se può aiutare. In Italia, per ragioni antiche, lo Stato era così debole che il privato arrivando pretendeva, come se stesse facendo un regalo. Per mettere le cose nel giusto equilibrio occorre uno Stato autorevole. Ed è quello che sta accadendo dopo la riforma Franceschini.

Se i musei cambiano a partire dal modo in cui si pongono verso il pubblico, il pubblico sta cambiando il modo con cui entra nei musei?

Credo che sia difficile generalizzare. I musei di arte antica e quelli di arte contemporanea hanno pubblici molto diversi, non solo per ragioni di interesse ma proprio dal punto di vista antropologico. Ogni museo, in funzione dell’attività e dello statuto, ha un pubblico differente. Se la proposta è solida e accessibile, però, orienti anche il pubblico che a priori non è omogeneo alla tua proposta.

Nei musei internazionali uno dei grandi temi è la decolonizzazione, che invece l’Italia sembra ancora ignorare. È possibile leggere l’impegno della Pilotta nell’uscire da una visione tradizionale e italocentrica come sforzo per attuare una sorta di “decolonizzazione interna”?

Assolutamente sì. Ci sono due aspetti della decolonizzazione. Uno è politico, che in ambito scientifico interessa poco ma ha risvolti sociali ad esempio nel momento in cui arrivano scolaresche in cui sono tanti gli studenti di origine straniera e tu devi affezionarli a un patrimonio che necessariamente non li rappresenta. È qualcosa che sollecita al cuore il museo come luogo di rinegoziazione dei valori culturali. Poi c’è il tema della decolonizzazione applicata agli studi, una sensibilità che ci consente di notare sfaccettature del passato che prima non riuscivamo a vedere. È un dovere aprirci ad approcci storiografici, come la global history, che conferiscono maggiore consapevolezza. Non possiamo fermarci alla storia dell’arte. Lo stesso termine “arte” è discutibile, in quanto codificazione culturale etnocentrica. Anche chi vedesse in maniere polemica il fenomeno, ha tutti gli interessi a rivedere i propri presupposti. Pena il rischio di essere spazzati via dalla storia.

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