sabato 13 agosto 2016
Simone e l'ELDORADO della canzone d'autore
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«In Argentina, al tempo della dittatura, i colonnelli volevano darmi un premio. Mi aspettavano in cinquemila per la foto col primo della hit parade com’era successo con altri miei colleghi, e io non sono andato mettendo pure a rischio la mia vita. Ma ho sempre pensato “domani cosa dirò di me, a mia figlia?” Penso di aver fatto tutto ciò che un manuale dell’arrivismo consiglierebbe di non fare…». Proferite con ironia e orgoglio, sono forse queste le parole che meglio dicono chi sia Franco Simone, cantautore salentino celebre nel mondo – specie in Sudamerica – quanto lontano dai riflettori in Italia.

 

E ciò malgrado una carriera di album scritti in ottima grafia, che l’ha visto vincere Castrocaro e il Festivalbar lanciando nel tempo grandi canzoni d’amore ( Respiro, Totò, Paesaggio, Gli uomini) e su temi coraggiosi ( Cara droga, Il vecchio del carrozzone). Simone è stato l’unico italiano dopo Modugno nelle classifiche del “Billboard” americano, è stato riletto da Gilberto Gil e omaggiato da Mercedes Sosa, in settembre è atteso in Ecuador da un concerto con 30mila biglietti staccati in prevendita.

 

E lui fa spallucce all’oblio nostrano mentre, nell’ordine: produce in Cile i giovani scoperti da coach della locale The voice; gira teatri e basiliche con uno Stabat Mater rock sinfonico che mescola classicità e modernità in musiche ben legate al testo di Jacopone da Todi; omaggia Luigi Tenco in un cd ( Carissimo Luigi, qualcosa già su iTunes e presto tutto nei negozi) che rilegge Tenco come mai è stato fatto sinora. Cioè con piglio teatrale, suoni raffinati, colori strumentali delicati ma caldi e una voce capace di forti brividi che fanno rinascere (col plauso della famiglia) Io sì, Mi sono innamorato di te, Ciao amore ciao, Tu non hai capito niente, Lontano lontano e così via. Sino alla dedica da parte di «noi che non sappiamo più sognare », verso-chiave dell’inedito Carissimo Luigi, che suggella tutto.

 

Oggi Franco Simone eseguirà per la prima volta dal vivo l’album per Tenco sul sagrato della chiesa di Melpignano in provincia di Lecce: perché Sergio Blasi della “Notte della taranta” l’ha ritenuto «necessario». Come pare accadrà per la presenza dell’artista, finalmente, al Premio Tenco.

Partiamo proprio da Tenco: cosa ricordare oggi di lui? «Credo che intanto non vada sottolineato sempre l’ultimo giorno. Lo trovo di cattivo gusto, e poi non possiamo giudicare: semmai dovremmo avere la misericordia che De André auspicò per l’amico in Preghiera in gennaio (nel cd è maestosa, ndr). La vita di Tenco è un esempio di purezza totale, ha indicato coerenza artistica. Il mio primo produttore, il compianto Ezio Leoni, mi parlava di una persona che non era mai in vendita. Forse cercava troppo il bello e il vero, semmai, e l’ha pagato in prima persona in quella baraonda del frivolo che è Sanremo».

A quale dei dieci pezzi che riprende è più legato? «A Ho capito che ti amo che con disarmante semplicità sintetizza l’innamorarsi, a Io sì dove c’è nobiltà dell’erotismo, anzi totalità dell’amore. E Vedrai vedrai è il canto della speranza, per me».

Le sue riletture virano verso il tango, il jazz, una teatralità alla francese: come ha lavorato sui brani? «Seguivo non le esecuzioni passate ma l’emotività dei pezzi. Siamo partiti sempre da mie versioni nude piano e voce, poi il bravissimo Alex Zuccaro, che mi ricorda il primo Morricone, ha scritto arrangiamenti al servizio dei brani sviluppando così un Tenco a tinte forti, molto meridionale se posso permettermi. Ma del resto era adorato in Argentina: lì si sentiva capito».

A proposito, lei in Cile produce giovani… «Astrid sta esplodendo, ha la modernità della Consoli e la passionalità di Gabriella Ferri. Vede, da noi sanno molte cose ma non hanno personalità, e poi è scomparsa la vera critica: perché Il volo non può essere alibi a una tv che usa bambini distruggendone la psiche. Certo, in televisione i produttori dicono di ricordarsi sempre che il pubblico è ignorante…».

A The voice in Cile invece come funzionava? «Beh, io non obbedivo alle regole. Mi dicevano negli auricolari di parlare di uno e io parlavo di un altro a seconda di ciò che ascoltavo. Ora si stanno stupendo che li aiuti tanto, sto lavorando anche su una signora sessantenne, spero di portarli in Italia. Ma se lo usi bene, il format di The voice non è una gara fra coach: fa capire che la “faccia giusta” non è nulla, conta l’armonia fra chi sei e quanto fai in scena».

Perché lei non è famoso qui quanto in Sudamerica? «All’inizio dicevano che ero troppo telegenico per parlare di droga e sofferenza d’amore: e io rifiutavo film su film. Ma se non avessi seguito il mio dono di far musica e la coscienza, non sarei qui: senza rimpianti o invidie, e credo migliorato negli anni».

Com’è giunto a comporre uno Stabat Mater a tre voci? «Credo che la religione, anche se si diventasse poi atei, sia imprescindibile perché costringe al confronto con le vere domande della vita. Amavo le opere di Pergolesi e Rossini e poi ho scelto una strada mia: la mia voce da cantautore con quelle del tenore Gianluca Paganelli e del rocker Michele Cortese. Dicono che sia il primo Stabat Mater in cui si sente senso di speranza: e riporto spesso questo complimento perché trovo inutile la falsa modestia del fingere di non rendersi conto di ciò che si è fatto. Un’opera è un dono da valorizzare, semmai: è l’essere stato capace di scavare nell’anima, soffrendo, sino a trovarci quello che Qualcuno mi ha donato».

Fra tutte queste attività, dove va il suo futuro? «Sempre più in cose come lo Stabat Mater, nulla mi dà pienezza come quando lo canto. E poi spero, quando torno in Sudamerica, di non sentirmi dire ancora perché l’Italia da anni non produce bella musica… ».

Il Franco Simone cantautore è un ricordo, dunque?  «No, lavoro a un doppio cd di successi e a uno di “incontri”: anche con artisti stranieri. E la mia Paesaggio è finita pure in un film sulla cantante argentina Gilda che andrà a Cannes. Nella sua versione, la cantano negli stadi durante le partite…».

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