venerdì 31 dicembre 2021
Il monaco belga Arnold, in Perù dal 1974 e tra i fondatori della teologia andina, rilancia il tema della kenosis, l’abbassamento divino. Piaghe come la pedofilia impongono nuove prospettive
"Le tenebre della Crocifissione" di Gustave Doré, particolare

"Le tenebre della Crocifissione" di Gustave Doré, particolare

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La questione dell’indicibiità di Dio è esposta in questo modo da Simone Weil nel saggio L’ombra e la grazia: «Dio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza. Il male indica che bisogna collocare Dio a una distanza infinita». E ancora: «Dio non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza».

Per la filosofa francese nell’atto della creazione Dio si ritira per lasciare spazio all’uomo e al cosmo. È questo il senso del riposo del settimo giorno, commenta il monaco belga Simon Pierre Arnold, che ricorda che secondo la Lettera agli Ebrei questo riposo continua ancora per consentire «una totale riconciliazione nella libertà». Anche l’esistenza del male diviene una prova di questa autolimitazione divina. Discorso alto e difficile, che il filosofo Luigi Pareyson definiva “temerario” e che è stato più volte affrontato da scrittori e pensatori, da Wiesel a Buber, dalla Hillesum a Bonhoeffer, il quale nella debolezza di Dio vede il segno della sua presenza accanto all’umanità ferita, e che ora viene applicato da Arnold, che vive in Perù dal 1974 ed è ritenuto uno dei fondatori della teologia andina, alla condizione della Chiesa oggi.

Un'analisi coraggiosa e a tutto campo che si rivela proficua in vista del Sinodo, contenuta nel saggio Dio è nudo. Inno alla divina fragilità di Simon Pierre Arnold, ora pubblicato da Queriniana (pagine 236, euro 26,00). Si può considerare una sorta di invito a compiere una discesa agli inferi per la fede cristiana, in conseguenza della crisi dovuta alla pandemia – in cui il cattolicesimo è stato spesso incapace di accompagnare la sofferenza delle persone colpite dal Covid e di dire a tutti parole significative sul vivere e sul morire – e alla piaga della pedofilia. Ciò è possibile solo abbandonando l’immagine di un Dio “mago dell’ordine” del cosmo ed assumendo quella di un Dio fragile, quella che san Paolo nella Lettera ai Filippesi chiama kenosis, simbolizzata dalla morte in croce di Gesù: «Qui, Dio non solo si spoglia, ma lo si spoglia, lo si umilia, lo si ridicolizza, lo si sfida a essere Dio secondo le categorie della teologia di Satana. Questo divino Servo sofferente, vulnerabile, re deriso da un’umanità insensata, muore d’amore nella nudità, trafitto da parte a parte. Ma in questa contemplazione del Dio nudo del Vangelo non bisogna dimenticare la Resurrezione. San Giovanni, in particolare, ci descrive in dettaglio la scena della tomba vuota con le bende per terra e il sudario accuratamente piegato. Gesù risorto è un Dio per sempre ferito d’umanità».

Questo abbassamento di Dio quale emerge dal Vangelo, sin dalla nascita di Gesù in una mangiatoia, ha un rilievo anche storico e scientifico. Sulla scia di Teilhard de Chardin, Arnold vede l’Incarnazione come «un mistero avvolgente» che rimane in atto nel cuore della storia e penetra tutta la realtà creata. E non confligge certo con la teoria dell’evoluzione, semmai conferisce un senso del tutto nuovo alla selezione delle specie, che non può essere vista come «un incontro di boxe il cui obiettivo sarebbe l’eliminazione sistematica del diverso e del debole. Dal punto di vista della fede, la selezione non ha come obiettivi, contrariamente alle crudeli evidenze, l’esclusione e il trionfo dell’individuo sul gruppo. Essa è, al contrario, la dinamica della reciproca emulazione verso più vita in comune, verso la cultura e la spiritualità».

Ma torniamo al cattolicesimo, che Arnold sferza per uscire dalla catalessi: «All’interno delle nostre Chiese – egli dice –, come schizofrenici, ci stiamo sgretolando in lotte interne di retroguardia tra conservatori e progressisti, mentre le vere urgenze sono innegabilmente altrove». Vista dal suo Perù, dove ha fondato in riva al lago Titicaca il monastero della Risurrezione, la Chiesa appare «troppo patriarcale e clericale, ossessionata da una visione puritana e dicotomica del mondo». Una requisitoria alquanto severa ma la situazione ecclesiale che stiamo vivendo «è drammatica, peggio dell’epoca che generò Lutero».

Come rispondere a questa crisi? Tornando semplicemente al Vangelo, siglando una nuova configurazione plurale ed egualitaria delle nostre relazioni, seguendo l’esempio di Gesù che rinunciò a tutti i suoi privilegi e invitò gli apostoli a non rivendicare posti d’onore e a concepire la gerarchia non come posizione di potere ma come servizio, sul modello della lavanda dei piedi. E inaugurò una nuova stagione nei rapporti fra uomo e donna.

«Aggrappandoci alle nostre scale – insiste l’autore – e ai nostri privilegi, chiudiamo la breccia attraverso la quale potrebbe penetrare lo Spirito. Il luogo del servizio, dove Gesù si è messo e dove vuole vederci, non ammette tuttavia alcuna eccezione. Non si tratta di un’ideologia astratta e facoltativa, ma piuttosto di un’anti-gerarchia vincolante per tutti e per tutte». Ma «tra le macerie di una Chiesa peccatrice», ci sono anche segni positivi, dal rispetto per i diritti umani al risveglio delle donne, dalla crescita della sensibilità collettiva per l’ecologia alla denuncia degli abusi sugli innocenti.

Tutte battaglie che dopo la Laudato si’ e la Fratelli tutti la Chiesa in qualche modo fa proprie. Ma l’urgenza vera di una Chiesa che torna al Vangelo è quella di tornare a proclamare all’uomo contemporaneo la proposta della fede. Che significa condivisione delle pene e delle gioie di tutti gli uomini ma non una rinuncia all’annuncio della resurrezione. Si chiede Arnold: «Nel nostro mondo sofisticato, da dove potrebbe sorgere ancora lo stupore? Come immaginare una Chiesa che si ritrae, come il suo Signore, che si rende sempre più invisibile per lasciare tutto lo spazio al Vangelo?»

È dal monachesimo e dalla sua scuola del dialogo nel silenzio, esemplificata dai detti dei Padri del deserto («crateri nascosti di senso nuovo e forte che ci salverebbero dalla logorrea onnipresente dell’abbrutimento mediatico: chi saprà osare nuovi detti per un nuovo deserto?»), che può venire una spinta positiva, ma non per cercare oasi perfette isolate dal mondo. Il modello proposto è quello della comunità trappista di Thibirine, capace di una presenza silenziosa ma efficace in una terra non cristiana, una presenza che contempla anche la possibilità del martirio. Non a caso uno degli ultimi paragrafi del libro si intitola Ripensare la Chiesa in categoria di visitazione: «È giunto il momento di scambiare l’imposizione universale con l’osmosi e la commensalità che ricreano sinfonicamente il mondo, come nell’incontro tra Maria ed Elisabetta».

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