giovedì 12 gennaio 2017
Cinema Tratto dal romanzo di Endo, il film nelle sale si impone già come un classico su fede e misericordia
Liam Neeson è padre Ferreira in “Silence” di Scorsese

Liam Neeson è padre Ferreira in “Silence” di Scorsese

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Lo ha capito bene Makoto Fujimura, l’artista-teologo di origine giapponese che al rapporto tra bellezza, spiritualità e silenzio ha dedicato un saggio apparso in America nei mesi scorsi. Nel romanzo di Shusaku Endo ( Silenzio, apparso nel 1966 e ora riproposto da Corbaccio) e più ancora nell’atteso Silence cinematografico diretto da Martin Scorsese (da oggi nelle sale italiane), le immagini svolgono un ruolo fondamentale. Ci sono i piccoli oggetti di culto conservati in segreto dai Kirishitan, i “cristiani nascosti”, durante la persecuzione che si abbatté sul Giappone attorno al 1630, e c’è il Cristo coronato di spine del Greco, che della sceneggiatura firmata dallo stesso Scorsese insieme con Jay Coks rappresenta forse l’invenzione più ragguardevole.

Quel volto impassibile e dolcissimo si ripresenta spesso alla mente di padre Rodrigues (magnifica la prova d’attore di Andrew Garfield), uno dei due giovani gesuiti (l’altro, padre Garupe, è interpretato da Adam Driver) che a fatica hanno ottenuto il permesso di raggiungere il Giappone per mettersi sulle tracce del loro maestro nella fede, padre Cristóvão Ferreira (Liam Neeson, di nuovo nei panni di un religioso ignaziano più trent’anni dopo Mission di Roland Joffé). Secondo dispacci ritenuti attendibili, Ferreira non avrebbe retto ai supplizi e avrebbe compiuto un atto di apostasia tanto più clamorosa quanto più eminente era stata la fama di impavido evangelizzatore che fino a quel momento aveva accompagnato il sacerdote.

Anche nell’abiura, del resto, le immagini sono decisive. Per smascherare i cristiani, infatti, le auto- rità giapponesi hanno escogitato la trappola dei fumie, sorta di mattonelle su cui sono raffigurati soggetti devozionali come la Crocifissione o la Natività e che i sospettati sono tenuti a calpestare in modo da dimostrare il loro disprezzo per Deus Sama (è l’appellativo riservato al Dio biblico). In origine i fumie non sono immagini religiose, essendo confezionate dagli stessi persecutori per finalità poliziesche. Eppure, per paradosso, le false icone finiscono per essere effettivamente consacrate dal sacrificio dei martiri. Le esecuzioni si susseguono in modo orribile, con una lentezza studiata e insostenibile per chi la subisce e, in forma diversa ma non meno ossessiva, per chi ne è spettatore impotente.

Fin dai tempi di Mean Streets (1973) e Taxi Driver (1976), la violenza è stata un elemento caratteristico del cinema di Scorsese, il quale però ha a lungo sostenuto che il suo film più crudele fosse in realtà L’età dell’innocenza (1993, dal romanzo di Edith Wharton), nel quale non scorre una goccia di sangue e la lacerazione si consuma invisibile nell’interiorità dei personaggi. In Silence qualcosa di simile accade nella coscienza di padre Rodrigues, tanto desideroso di portare a compimento la sua personale imitazione di Cristo (da qui la presenza ricorrente del dipinto del Greco) da non contemplare, fin quasi alla fine, che quella stessa imitazione possa passare attraverso l’abissale rinnegamento di sé e della propria fede, attraverso uno svuotamento e annichilimento che rimanda direttamente alla teologia paolina della kenosis. Una strada terribile e imprevista, lungo la quale padre Rodrigues si trova in compagnia dell’apostata Ferreira e dello sfuggente Kichijiro (impersonato da Yosuke Kubozuka), un Giuda ulteriormente degradato dalla consapevolezza di essere troppo debole per testimoniare la fede che ancora conserva nel suo cuore.


Kichijiro tradisce in continuazione e in continuazione chiede di ottenere l’assoluzione sacramentale, in un circolo vizioso che sembrerebbe non spezzarsi mai. Imprigionato e isolato, padre Rodrigues deve fronteggiare il mellifluo inquisitore Inoue (un impeccabile Issei Ogata), ormai persuaso che il modo migliore per sradicare il cristianesimo dalla «palude» del Giappone non sia l’uccisione dei missionari, che anzi assumono così lo statuto di martiri, ma la loro plateale rinuncia alla fede. Proprio come è accaduto – anche in sede storica – con Ferreira, che ha assunto l’identità di un notabile defunto e ora è intento a comporre un trattato capace di confutare i presunti errori del cristianesimo. Un destino simile attende padre Rodrigues, che però ha intenzione di resistere. È un credente, un uomo di Dio, un gesuita, si considera pronto a morire per la fede in qualsiasi momento. Non è questo che gli si chiede.

Non è lui che viene torturato, ma un gruppo di Kirishitan che verranno liberati solo se il prete si assoggetterà al sacrilegio del fumie. Il suo, gli preannuncia Ferreira, sarà il più doloroso atto d’amore mai compiuto, ma anche l’unico modo, inatteso e straziante, per tornare ad ascoltare la voce del Dio Crocifisso che finora sembrava rimasto in silenzio. Più ancora del controverso L’ultima tentazione di Cristo (1988) e dell’orientaleggiante Kundun (1997), Silence è il film che con l’immediatezza di un classico porta alla luce l’urgenza spirituale che da sempre sostiene il cinema di Scorsese, in un confronto serrato tra colpa e perdono, caduta e redenzione, angoscia e misericordia.

Ed è, insieme, un omaggio neppure troppo velato alla lezione cinematografica dell’indimenticabile Akira Kurosawa, che già nel 1990 aveva voluto Scorsese nel cast di Sogni. Addirittura meticoloso nel rispetto del suo modello letterario, Silence si distacca dal libro di Endo per un minimo dettaglio dell’inquadratura finale. Un’immagine, certo. Non potrebbe essere altrimenti.

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