sabato 8 luglio 2023
80 anni fa, dopo una sequenza di bombardamenti che mise a ferro e fuoco l’isola, ebbe luogo la maggiore operazione aereonavale della storia, superata poi solo da quella in Normandia
Lo sbarco alleato in Sicilia, il 10 luglio 1943

Lo sbarco alleato in Sicilia, il 10 luglio 1943 - archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

«Il mare era pieno di navi, piccole e grandi, cariche di soldati che una volta scesi in acqua tenevano alti i fucili per non farli bagnare». C’è il 10 luglio 1943 e tutta la Seconda guerra mondiale nel diario che Agnese Modica ha tramandato a figli e nipoti. La donna si trovava a Renna, una frazione di Noto, in provincia di Siracusa, e dal balcone di casa sua si scorgeva il mare: «Sembrava popolato da mosche. Invece erano uomini e barche che si muovevano velocemente per raggiungere la riva». Agnese non c’è più dal 2020, ma le sue memorie restano: «Per lei quel giorno fu l’inizio della liberazione dal nazifascimo» sottolinea la figlia Santina. Anche se l’Operazione Mincemeat, il piano di inganno strategico condotto nella primavera del 1943 dai servizi segreti britannici, aveva fatto credere che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia, l’isola non era sguarnita come testimonia la storia di “resistenza a oltranza” della Divisione Livorno a Gela. Le casematte, i bunker e i pillow sono tutt’ora visibili lungo le strade a ridosso della costa in Sicilia orientale, ossia i luoghi dove misero piede gli anglo-americani e i canadesi.

La 45ª Divisione di Fanteria della VII Armata al comando del generale George Patton sbarcò intorno alle 3:45 su un fronte di 17 chilometri tra Punta Zafaglione e Punta Braccetto. La 1ª e la 3ª Divisione si attestò nell’area compresa tra Gela e Licata. Le due zone più importanti ai fini dell’attuazione dell’Operazione Husky furono due: una conquistata dalla VII Armata americana da Licata a Scoglitti, lunga un’ottantina di chilometri nel Golfo di Gela, e quella dell’VIII Armata britannica guidata dal generale Bernard Law Montgomery posizionata lungo la costa tra il Golfo di Noto, Pachino e a ovest di Portopalo di Capo Passero, a Punta Castelluzzo, lungo una direttiva di circa 50 chilometri. Il piano era stato ideato dal generale Harold Alexander al quale venne affidato il comando delle forze terrestri mentre la direzione delle operazioni fu affidata al generale Dwight David Eisenhower. Il comando delle forze navali in mano all’ammiraglio inglese Andrew Browne Cunningham e le forze aeree al maresciallo dell’aria Arthur Tedder.

«Lo sbarco alleato in Sicilia del 1943 fu la più grande operazione aereo-navale della storia, superata l’anno dopo soltanto dallo sbarco in Normandia – commenta lo storico dell’Università di Catania Giancarlo Poidomani –. Più che attraverso l’infiltrazione di agenti siculo-americani sull’isola e tramite fantomatici contatti con la mafia, ampiamente smentiti da storici come Lupo, gli alleati prepararono lo sbarco, che era stato deciso nella conferenza di Casablanca del gennaio 1943, con una massiccia campagna di raid aerei. A Casablanca infatti fu anche decisa l’intensificazione dei cosiddetti bombardamenti strategici, quelli cioè volti a distruggere le infrastrutture e a fiaccare la popolazione civile – spiega Poidomani –. Churchill era convinto che l’Italia fosse il punto debole dell’alleanza italo-tedesca e che bisognasse estromettere, knock out, l’Italia, già duramente provata, dal conflitto». Per questo, i bombardamenti che si susseguirono dal gennaio all’agosto del 1943 e che misero a ferro e fuoco l’isola, colpirono deliberatamente non solo i porti, le ferrovie, le strade, i ponti e gli obiettivi militari ma anche interi quartieri urbani. «Le vittime tra la popolazione civile furono migliaia – aggiunge Poidomani –. Eppure il 10 luglio gli alleati furono accolti come dei liberatori più che come invasori e i siciliani, per la maggior parte, collaborarono di buon grado per ripristinare le strutture amministrative e per affermare un primo embrione di governo democratico. Perché erano stanchi della guerra, della fame e delle privazioni e soprattutto dello stato di continuo terrore scandito dagli allarmi antiaerei .

Lo sbarco rappresentò la liberazione del primo lembo di Europa dalla morsa nazifascista. E questo i siciliani lo ebbero subito ben chiaro. «La scelta alleata del luogo per sbarcare in Sicilia non era semplice – sottolinea l’ammiraglio di squadra Ferdinando Sanfelice di Monteforte, tra i più importanti storici navali italiani ed europei –. Come osservò l’ammiraglio Bernotti, se il nemico avesse prescelto come zona di sbarco la parte occidentale dell’isola, più vicina alla Tunisia, si sarebbero verificate per la difesa le condizioni meno gravi, che avrebbero potuto consentire l’intervento del nucleo principale della flotta italiana, la resistenza su un fronte ristretto e la possibilità di far affluire le truppe dislocate nella parte orientale. Lo sbarco sulla costa meridionale e sud-orientale della Sicilia offriva invece i massimi vantaggi: minacciava le comunicazioni tra le forze della difesa nella parte occidentale e quelle nella parte orientale, consentiva una rapida conquista dei porti di Augusta e Siracusa, sicure basi per sbarcare il grosso delle truppe e i rifornimenti. Infine la vicinanza di Malta alla zona di sbarco rendeva minimo il percorso e garantiva una migliore copertura aerea». La paura di un’incursione della flotta italiana «fu il fattore che spinse il comando supremo alleato a scegliere lo sbarco a cavallo della punta meridionale dell’isola. La zona, infatti, oltre a essere ricca di porti per alimentare lo sforzo alleato era, al tempo stesso, la più lontana dalla base della Spezia, dove la flotta si era ritirata, sia per ridurre il pericolo dei bombardamenti alleati, sia per contrastare un’eventuale sbarco alleato in Sardegna».

Anche la Regia Aeronautica si trovò a reagire allo sbarco degli Alleati. «La s4a situazione nel luglio del 1943 era molto difficile. In tre anni di guerra la dispersione delle forze su più fronti aveva accentuato il logoramento dello strumento aereo le cui capacità non potevano essere ripristinate anche per le difficoltà di un’industria non in grado di assicurare il rinnovamento delle linee di volo – spiega il generale ispettore capo Basilio Di Martino, tra i massimi storici dell’aviazione –. La componente d’attacco, se si escludono i pochi monomotori Reggiane Re.2000 che stavano entrando in linea, per quanto riguardava i bombardieri e gli aerosiluranti era equipaggiata con le stesse macchine del 1940-41, mentre quella da caccia era in transizione alla “serie 5”, rappresentata soprattutto dal Macchi C.205 disponibile in numeri limitati. Le grandi manovre del 1937 che si erano svolte in Sicilia, avendo come tema proprio la difesa dell’isola, avevano correttamente individuato come premessa indispensabile la conquista della superiorità aerea e il martellamento delle linee di alimentazione delle forze sbarcate. Nel luglio del 1943, nonostante la dedizione e il coraggio degli equipaggi, la semplice forza dei numeri lo rese impossibile».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: