venerdì 30 agosto 2019
Il presidente del Censis al Festival di Sarzana si interroga sull’evoluzione del processo storico contemporaneo a quasi trent’anni dalla pubblicazione del saggio best-seller di Fukuyama
Valerii: «Siamo giunti alla fine della fine della storia?»
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Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Con ottimismo e ingenuità, su quelle macerie celebrammo la “fine della storia”, giunta a compimento con il trionfo delle democrazie liberali e del capitalismo, con il crollo rovinoso dei regimi comunisti e l’armistizio della guerra fredda, secondo un progresso che credevamo essere lineare e senza contraddizioni. Ma adesso ci sembra di sporgerci su una nuova frattura della storia. Siamo davvero proiettati in un salto d’epoca? Siamo alla fine della “fine della storia”? Il libro di Francis Fukuyama sulla “fine della storia” è del 1992 (ma era stato anticipato da un articolo che il politologo americano aveva pubblicato sulla rivista National Interest proprio nel 1989). Divenne rapidamente un best-seller internazionale, tradotto in dozzine di paesi in tutto il mondo. Ebbe un grande successo perché coglieva appieno lo spirito del tempo. Fu osannato da destra come un’apologia del liberismo, che si affermava incontrastato a livello planetario. E suscitò indignazione e infinite polemiche tra gli intellettuali di sinistra, alle prese con la difficile metabolizzazione del lutto per il fallimento dell’ideologia socialista. Poi, nel 2005, è la volta del saggio di Thomas Friedman sul “mondo piatto”. Lo leggemmo convinti che internet e la rivoluzione tecnologica avrebbero infranto per sempre le pareti spaziali, temporali e culturali che dividevano i paesi del pianeta, che mai più sarebbero stati distanti tra loro come in passato. Il destino appariva segnato, il cammino predefinito secondo necessità. Infine, la copertina dell’Economist nel gennaio di quest’anno titola: «Slowbalisation».

Il riferimento è alla fase di crisi della globalizzazione che stiamo vivendo e al raffreddamento della congiuntura internazionale, con il rallentamento del commercio mondiale e gli investimenti esteri in calo, la «guerra dei dazi», il ritorno del sovranismo, dei confini sigillati degli Stati nazionali, delle frontiere impermeabili in luogo di quelle porose della globalizzazione. Nell’arco di questi trent’anni (1989-2019), dopo la grande crisi e le sue conseguenze, si è consumato il falò delle vanità. Comincia una nuova storia dopo la fine della storia? Non era un’idea originale di Fukuyama, quella della fine della storia. L’aveva ripresa dal filosofo russo di nascita, naturalizzato francese, Alexandre Kojève. Il quale, tra il 1933 e il 1939, aveva tenuto un leggendario seminario sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel all’École Pratique des Hautes Études di Parigi di fronte a un uditorio d’eccezione. C’erano André Breton, Georges Bataille, Raymond Queneau, Maurice Merleau-Ponty, Jacques Lacan, Raymond Aron, Éric Weil. Secondo Kojève il desiderio umano è l’innesco del processo di autocoscienza e dà origine alla storia. Desiderare significa avvertire la «presenza di un’assenza».

«Il desiderio rende l’uomo inquieto e lo spinge all’azione ». E la storia è lotta, violenza, rivoli di sangue ? «un banco di macellaio», aveva detto Hegel. La storia termina con la Rivoluzione francese (quando si afferma il principio politico universale della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli individui) e con Napoleone (che diffonde il codice civile). Per Kojève la sfilata delle truppe di Bonaparte sotto le finestre di Hegel al termine della battaglia di Jena del 1806, quando la Grande Armata sconfigge l’esercito della vecchia Prussia, segna il compimento della ragione filosofica e la fine della storia. Scompare cioè l’uomo inteso come soggetto storico in lotta per il riconoscimento. E ora l’umanità si dirige verso la formazione di quello che Kojève chiamò «Stato universale e omogeneo », necessariamente transnazionale, organizzato in una società senza classi, formata da individui post-storici sottratti alla logica del desiderio. Gli avvenimenti successivi (persino le due guerre mondia-li, la rivoluzione russa e quella cinese) non saranno altro che la propagazione della fine della storia nel resto del mondo: l’«allineamento delle province».

Kojève aveva in qualche modo previsto la globalizzazione. Oggi però abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un arresto di quel processo. Ma se la storia riparte, riecheggiano le urla della battaglia, il clangore delle armi, il passo assordante dei cortei cruenti dei rivoluzionari, quando una nuova epoca inghiotte l’epoca precedente. La lezione che possiamo trarre è che le moderne democrazie liberali (pienamente compiute alla “fine della storia”) hanno bisogno dello sviluppo economico, perché i fattori fondamentali su cui si sorreggono ? accesso di massa ai consumi, istruzione universale, uguaglianza delle opportunità, superamento delle rigide distinzioni di classe attraverso i processi di mobilità sociale, stratificazione del ceto medio ? dipendono dalla crescita. Che crea una uguaglianza di fatto, prima ancora che se ne stabilisca una formale attraverso l’estensione dei diritti sociali e civili a chi ne è privo. Se la crescita si ferma, le democrazie liberali vacillano. E a quel punto la storia si rimette in moto con tutto il suo significato tragico. È un monito da tenere a mente nell’Italia inquieta imprigionata nel limbo della crescita da “zero virgola”.

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