martedì 13 febbraio 2024
Parla la prima scrittrice indiana a vincere il Booker prize internazionale con il romanzo“Ret Samadhi”:storia di frontiere, lutti, riscatto, che ora esce in Italia: «Adoro “Il barone rampante”
La scrittrice indiana Geetanjali Shree

La scrittrice indiana Geetanjali Shree - Gagan Brar

COMMENTA E CONDIVIDI

Geetanjali Shree è una scrittrice indiana, autrice di diversi racconti e cinque romanzi. Nel 2000 il suo Mai è stato selezionato per il Crossword Book Award e Ret Samadhi - uscito nel 2018 e tradotto in inglese come Tomb of Sand - ha vinto l’International Booker Prize 2022. In Italia il libro è da poco uscito per Solferino, tradotto dalla lingua hindi (da Alessandra Consolaro e Veronica Ghirardi) come Ret Samadhi. Oltre la frontiera (pagine 576, euro 20,00).

Geetanjali Shree è la prima scrittrice indiana a vincere il Booker Prize e quando le abbiamo chiesto che significato potesse avere questo premio per lei, ha risposto che è una cosa che la rende al tempo stesso «orgogliosa e dispiaciuta», di essere solo la prima. Shree viene definita da molti critici come un’artista dello stile in quanto a scrittura, e in un certo senso l’incipit del suo libro è un assaggio di ciò: «Una storia si racconterà da sé. Sarà una storia allo stesso tempo completa e incompleta, come succede alle storie. È una storia interessante. Ha una frontiera e donne che vanno e vengono a loro piacimento. Basta che ci sia una donna e una frontiera e la storia si fa da sé. Anzi, basta la donna. È una storia. Piena di palpiti. E poi la storia vola nel vento che soffia».

Il suo è un libro definito da molti critici come «polifonico», per la capacità di esplorare temi complessi come il lutto, l’identità e l’appartenenza, conservando vivi tratti di umorismo, intima umanità e un senso profondo di epicità, attraversato da vari fili narrativi intessuti con uno sguardo nuovo. Al centro della vicenda, ambientata nel nord dell’India, c’è una donna di 80 anni che cade in depressione alla morte del marito e ne riemerge per ottenere una nuova prospettiva di vita. Ma c’è anche il Pakistan e la “Partition” del 1947, quando il subcontinente indiano fu diviso in due Stati indipendenti, l’India a maggioranza indù e il Pakistan a maggioranza musulmana, accompagnata da una delle più grandi migrazioni di massa nella storia. Ne abbiamo parlato con l’autrice, spaziando dai possibili livelli di lettura del romanzo alla letteratura hindi e indiana, passando per i temi chiave di questa storia come la lingua, il lutto, l’identità e soprattutto i confini.

Il romanzo può essere letto come una protesta contro l’impatto distruttivo dei confini, tra religioni, Paesi e generi.

«Si, certo. Una delle maggiori preoccupazioni del romanzo riguarda tutti i tipi di confini che affliggono la vita umana. Una realtà inevitabile: i confini possono esserci, ma per chiarire e definire una forma, per rendere conveniente lo scambio, non per dividere e scatenare ostilità. Il romanzo è un appello secondo cui, invece di esserci muri che chiudono fuori, i confini dovrebbero essere ponti che collegano».

Nel suo libro parla anche di depressione. Il tema della salute mentale è oggi argomento che merita sempre più attenzione.

«La depressione non è che un sintomo di un malessere più ampio. Il mondo di oggi è pieno di cause che portano alla depressione. Sfortunatamente, di conseguenza, la salute mentale richiede un’attenzione sempre maggiore».

Si parla poi di lutto e identità.

«La prima delle tre sezioni di Oltre la frontiera può essere letta come una meditazione sul lutto. La seconda sezione, dopo la liberazione dal lutto prolungato, è una celebrazione del miracolo chiamato vita. Ma anche quel miracolo – c’est la vie – è segnato da un lutto successivo, che è più traumatizzante di quello della prima parte. E nell’ultima sezione arriva la morte eroica dell’anziano protagonista che getta nel lutto anche gli uccelli. Per quanto significativi e commoventi siano questi atti intermittenti di lutto, c’è anche un lutto più ampio e duraturo che attraversa l’intera narrazione, di un ordine mondiale pluralistico, ricco e diversificato che lentamente perde terreno. Trattandosi di una perdita profondamente personale e di civiltà, questo lutto è anche una consacrazione e un’iconizzazione dell’entità defunta o in partenza. Una consacrazione che potrebbe ispirare le generazioni future a ripristinare quel mondo che sta scomparendo».

Questo libro potrebbe essere anche un’occasione per ridefinire alcuni significati come l’essere madre, figlia, donna?

«Nella finzione non mi propongo alcuna rivalutazione consapevole. Anche nel caso in cui scrivo su temi simili a quelli di cui ho già scritto, il mio scopo è sempre quello di esplorarli di nuovo. L’esplorazione però è umana e artistica, non accademica, e apre un’esperienza ma non cerca di dare risposte».

Parlando di stile e linguaggio: il libro alterna una sorta di flusso di coscienza a capitoli brevi di poche righe, con un tono di fondo umoristico nonostante la complessità dei temi affrontati.

«Nel discorso di accettazione alla cerimonia dell’International Booker Prize ho descritto il romanzo come un’elegia ridente. Eppure, nella mia narrativa c’è poco di premeditato e pre-progettato. Né il tema né il modo di trattarlo sono decisi in anticipo. L’opera sviluppa la propria dinamica e sceglie la sua andatura, la via da seguire».

Che momento stanno vivendola letteratura hindi e indiana?

«La letteratura hindi, con altre letterature in lingua indiana, sta attraversando una fase vibrante. Stanno emergendo nuove voci, audaci, innovative e senza paura».

Nella sua intervista per il Booker Prize ammette di non aver mai finito Il nome della rosa. Pensa che lo finirà? Altri italiani che ha letto o vorrebbe leggere?

«Sono una grande sostenitrice della serendipità. Non so dire quando Il nome della rosa mi richiamerà. Adoro Il Barone Rampante di Italo Calvino e altri. Non tenterò nemmeno di raccontare ciò che Primo Levi mi ha insegnato. Ricordo Pirandello dai tempi di quand’ero studentessa. Elena Ferrante è una fonte di ispirazione, ma la mia lettura è casuale e ho molto altro da leggere. L’Italia è ricca culturalmente e non si può che trarre beneficio da un legame più profondo con essa».

Come mai il titolo italiano è così distante dall’inglese Tomb of Sand?

«Il titolo originale è quello hindi: Ret Samadhi. Il romanzo affronta soprattutto i confini, fisici e metaforici. Le traduzioni riprendono entrambi i punti nel titolo e ne utilizzano uno o entrambi. Il titolo di quella francese per esempio è Ret Samadhi. Au de-la de la frontier. Mi piace molto il modo in cui racchiude entrambe le idee».

La spartizione del 1947 quanto ha influenzato e quanto influenza ancora sistemi politici e popoli?

«Nel dispiegarsi del suo impatto, la spartizione catastrofica del 1947 è un evento continuo. La ferocia dell’impatto varia nel tempo, ma la spartizione non cessa mai di essere una presenza sempre minacciosa. Gli effetti di divisione purtroppo continuano a manifestarsi in modi nuovi e diversi. Il momento attuale è particolarmente preoccupante, soprattutto per gli sviluppi in India e Pakistan».

Ci sono altre situazioni nel mondo in questo momento, in cui si combatte per i confini.

«Russia-Ucraina e Israele-Hamas ci sono esplosi in faccia. Tanto altro sta ribollendo e aspettando di esplodere. Le persone combattono non solo per i confini nazionali ma anche per molti altri, che sono diventati motivo di preoccupazione nel romanzo. E, naturalmente, siamo impegnati a ribaltare il confine del nostro ambiente e dell’intero pianeta a suo e nostro danno».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: