giovedì 19 maggio 2011
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Le vicende degli ebrei in Italia, durante il fascismo e la guerra, vengono spesso troppo semplicisticamente associate alla tragica sorte degli israeliti vittime di spietata persecuzione di massa nella Germania hitleriana. In realtà, occorre precisare e spiegare (a chi non lo sapesse) che i cittadini italiani di religione ebraica furono certamente oggetto di discriminazione, a cominciare dal 1938; tuttavia, essi furono avviati alla prigionia e ai campi di sterminio soltanto dopo l’occupazione tedesca dell’Italia e l’instaurazione della Rsi, nel settembre 1943. Dunque, si può parlare di una Shoah anche italiana soltanto a partire da quell’epoca. È vero che le leggi razziali del ’38, che rendevano obbligatori i censimenti e la registrazione degli spostamenti degli ebrei, facilitarono enormemente il lavoro ai "boia" nazisti che diedero la caccia agli odiati nemici razziali dall’autunno del ’43. Ma è altrettanto incontestabile che, in Italia, per molto tempo, furono dati accoglienza e rifugio ai perseguitati razziali in fuga dalla Germania e dalle nazioni sottomesse al Reich (in primis, Austria, Cecoslovacchia e Polonia). Uno studioso lariano, Giuseppe Turconi, ha trovato importanti prove documentarie del transito di profughi nel territorio comasco, realtà particolarmente significativa per la sua prossimità al confine svizzero. L’appassionato ricercatore, 89 anni, si è trasformato così in un cacciatore d’archivi. Nella sua ricerca è stato estremamente favorito dal fatto di conservare memorie personali molto nitide su aspetti sconosciuti e nascosti della vicenda degli ebrei. Anzitutto, la sua casa, nel piccolo centro di Villaguardia, alle porte di Como, ospitò con discrezione un nucleo di israeliti sfollati da Milano: «Si trattava – racconta – della famiglia dell’avvocato Omodei Zorini. Restarono con noi per l’intera durata del conflitto. All’anagrafe del Comune, per tenere celata la sua appartenenza alla "razza" ebraica, Omodei Zorini fu registrato con il nome di Amedeo Zorini». Ma Turconi serba altri ricordi: da ragazzo, visitò alcune tenute agricole del territorio, che ospitavano colonie di giovani ebrei europei, in fuga dalle persecuzioni. Con il pretesto di svolgere un’attività di formazione professionale nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento, gli israeliti potevano così ottenere dalle autorità fasciste un permesso di soggiorno temporaneo (di regola, della durata di un anno) e giungere quindi in Italia. Aziende del genere esistevano, nel Comasco, a Villaguardia e a Lurate Caccivio. Rievoca Turconi: «Il gruppo più consistente di rifugiati si trovava alla "Benedetta", fattoria di proprietà di un certo von Wittenbach, non so se svizzero o tedesco. L’altra tenuta che visitai era quella di Piero Faverio. Mi accompagnava in quelle occasioni un amico nativo di Parigi, France Galli, che parlava correntemente quattro o cinque lingue, e quindi ci consentiva di imbastire un minimo di conversazione con quei giovani. Ricordo ancora oggi la loro grande cortesia nei nostri confronti». Prosegue il testimone-ricercatore: «So per certo che tutti costoro restavano temporaneamente, in attesa di partire per la Palestina o l’America. Molti, forse, riuscirono a salvarsi e a intraprendere una nuova vita, nella loro "terra promessa". Ricordo che mio fratello, credo verso la fine del 1939, ricevette una cartolina da Mosca spedita da uno di questi profughi transitati in una delle due colonie». Prove consistenti, in tal senso, Turconi le ha scovate negli archivi storici comunali, dove sono emerse, tra le altre cose, le corrispondenze tra le autorità, sulle misure di vigilanza da attuarsi nei confronti degli ebrei e gli elenchi nominativi dei profughi ospitati nelle tenute agricole. Si tratta di persone, uomini e donne, quasi tutte di età inferiori ai trent’anni, e di disparate nazionalità. Una lista redatta il 22 agosto 1938, alla vigilia del varo delle leggi razziali, documenta che gli ospiti stranieri presenti a Villaguardia sono dodici. Ecco i loro nomi: Iosef Berger, polacco, Rudolf Foerder, tedesco, Berhard Ofsisowitz, tedesco, Hirsch Buchslaum, polacco, Iulius Hartheiner, tedesco, Norbert Immergluck, polacco, Semi Goldwein, di Danzica, Menachem Melzer, polacco, Maurice Solomon, apolide tedesco nato in Romania, Selma Gorski, tedesca, Marga Hivshhorn, polacca, Gertrude Kahn, tedesca. Un altro elenco precedente, del 28 aprile 1937, indica le generalità di altri quattro rifugiati transitati per motivi razziali: Fritz Schlesinger, Felisc Benda, Lise Lotte Goldschmidt, Albert Pollacsek. Altri perseguitati hanno sicuramente raggiunto i lidi ospitali della terra lariana, almeno per un breve periodo. Tra essi, la cecoslovacca Guglielmina Bohm e i tedeschi Liddj Ratzengberg, Felisc Maas, Karl Schiess, Werner Moritz Fuchs, Norbert Hauptmann, Ruth Loew. All’avvicinarsi dell’approvazione, a tamburo battente, delle leggi razziali, le colonie di ebrei cominciano ad assottigliarsi e i perseguitati si eclissano. Il primo ha partire è il diciannovenne Maurice Solomon, di cui i registri attestano la partenza per Milano il 20 settembre 1938. Il caso comasco non è peraltro isolato. Nel 1938, in Italia vi sarebbe stata una quarantina di colonie agricole nelle quali gli ebrei perseguitati venivano nascosti in attesa di essere fatti espatriare. L’Aliath Hanoar, fino al gennaio 1940, si occupò in particolare del trasferimento in Palestina di ebrei italiani e stranieri. Ma l’iniziativa più robusta fu quella condotta dapprima dal Comasebit (Comitato assistenza ebrei in Italia) e successivamente dalla Delasem (Delegazione assistenza emigranti ebrei), organizzazioni riconosciute dal governo italiano. Il Lloyd triestino, ad esempio, si fece carico, fino al 10 giugno ’40, data dell’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, del trasporto di questi emigranti, in genere a Shanghai. Ma le destinazioni degli ebrei profughi erano molteplici: oltre alla Palestina, America del Nord, Spagna, Portogallo, Argentina, Tangeri, Paraguay, Cuba, Francia e Inghilterra. Per l’emigrazione degli ebrei stranieri, tra il novembre del 1939 e il giugno ’40, furono spesi circa 8 milioni di lire: uno sforzo imponente sostenuto grazie al sostegno di importanti sigle internazionali ebraiche, come l’American Joint Distribution Committee e l’Hicem (Hias-Ica Emigration Association).Dietro le opere di assistenza umanitaria, spesso animate da ambienti giovanili sionisti, si stagliavano dunque grandi ed efficienti reti organizzative, con vaste ramificazioni italiane i cui snodi coincidevano con le comunità ebraiche di maggiore tradizione, radicamento e consistenza numerica. Alla data del 20 settembre ’39 gli ebrei stranieri fatti partire dall’Italia furono circa 6.500; fino al 1943 la Delasem riuscì a farne emigrare altri cinquemila.
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