domenica 26 gennaio 2020
Nell'odierno Giorno della Memoria, anniversario della liberazione di Auschwitz, si moltiplicano le riflessioni sul ruolo dei testimoni, ridottosi con il trascorrere del tempo. L'aiuto di molti libri
Géza Röhrig in una scena di «Il figlio di Saul», il film di László Nemes vincitore del Grand Prix a Cannes nel 2015 e dell’Oscar nel 2016

Géza Röhrig in una scena di «Il figlio di Saul», il film di László Nemes vincitore del Grand Prix a Cannes nel 2015 e dell’Oscar nel 2016

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David è arrivato tardi: il signor Rosenzweig è morto prima che si riuscisse a registrare la sua testimonianza di ultimo cittadino israeliano sopravvissuto alla Shoah. E con questo basta, allo Yad Vashem non c’è più bisogno di qualcuno che raccolga la documentazione. È il 2024, al museo della Shoah di Gerusalemme i visitatori sono in calo, altre istituzioni simili hanno già chiuso i battenti. Per sfuggire alla disoccupazione David decide di giocare il tutto per tutto ed escogita un’ultima testimonianza. L’ultimissima, per la quale però bisognare trovare il testimone giusto. Sospeso tra il paradosso e la provocazione, Olocaustico di Alberto Caviglia (Giuntina, pagine 304, euro 18,00) è un romanzo che traspone sul piano narrativo un tema del quale si parla sempre più spesso e che torna ulteriormente d’attualità di quest momento, in una Giornata della Memoria che coincide con il 75° anniversario della liberazione di Auschwitz. La questione, appunto, è quella dei testimoni e della testimonianza, secondo la distinzione suggerita dalla semiologa Valentina Pisanty in I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani, pagine 242, euro 13,00).

Si parte dalla constatazione del fatto che, a dispetto del moltiplicarsi delle iniziative di sensibilizzazione sulla Shoah, negli ultimi anni è in atto una ripresa sempre più smaccata di atteggiamenti discriminatori, discorsi d’odio e aggressioni razziste. Non si tratta solo di odiosi episodi di cronaca, ma di elementi di un discorso pubblico all’interno del quale sono confluiti – in maniera prima subdola e poi sempre più dichiarata, quasi al limite della rivendicazione – gli esiti del negazionismo. Ma perché la formula “Per Non Dimenticare = Mai Più” si è dimostrata meno efficace del previsto? Secondo Pisanty per un difetto originario, già individuato negli anni Settanta da quanti avevano contestato il modello di racconto semplificato offerto dalla serie tv Olocausto. Erano le avvisaglie di un’attitudine emotiva che, nel tempo, è venuta a coincidere con il primato pressoché indiscusso assegnato al testimone, a discapito di un’indagine storiografica basata sul vaglio delle testimonianze. La distinzione è meno sottile di quanto si potrebbe pensare e, di nuovo, è il romanzo di Caviglia a renderla evidente. Il testimone fittizio che David offre all’opinione pubblica viene inizialmente accolto con entusiasmo e commozione ma, non appena viene smascherata la falsità dell’esperienza alla quale si fa riferimento, ecco che in Olocaustico interviene una reazione a catena per cui ogni altra testimonianza documentaria viene destituita d’autorità, fino a spingere la comunità internazionale ad avallare il più drastico negazionismo: siccome quel singolo testimone è un impostore, la Shoah stessa viene considerata un’impostura. Provocazione e paradosso, d’accordo.

Ma vicende non troppo diverse da quella immaginata nel romanzo si sono effettivamente verificate, come ricordano sia Pisanty sia Walter Barberis in Storia senza perdono (Einaudi, pagine 90, euro 12,00), un pamphlet che, pur esprimendo una posizione inflessibile sul dovere di ricordare e denunciare, non si sottrae alla riflessione imposta da fenomeni come quello dei falsi testimoni e, più in generale, dell’«abuso della memoria» che, scrive Barberis, «non è meno dannoso di un cattivo uso della storia». Il punto decisivo rimane quello del venire meno di quanti, sopravvissuti allo sterminio, hanno finora sostenuto l’onere della testimonianza. La soluzione alla quale Barberis rimanda coincide in sostanza con quella suggerita da Pisanty: «Ci salverà – si legge in Storia senza perdono – solo la razionalità della ricerca, l’onestà dell’insegnamento, e tanta umanità ». E l’elaborazione di nuovi linguaggi, si potrebbe aggiungere: il ricorso a strategie narrative e di rappresentazione simbolica che vadano al di là degli schematismi più immediati e rassicuranti. Non è solamente una questione di stile, ancor meno di tecniche.

Anche se non incentrato esclusivamente sulla Shoah, un saggio come Elogio dell’oblio dello statunitense David Rieff (traduzione di Gabriella Tonoli e prefazione di Marta Boneschi, Luiss, pagine 134, euro 18,00) offre più di uno spunto al riguardo. Rieff chiama in causa quella che definisce «la vittoria della memoria sulla storia », alla quale associa il rischio di una genericità che può rivelarsi fungibile ai disegni più disparati. Non per niente, come sottolinea la stessa Pisanty, i sostenitori del negazionismo amano appellarsi al principio – di per sé perfettamente democratico – della libertà di espressione, in un rovesciamento di ruoli reso ancora crudele dalla sua apparente consequenzialità. L’oblio del quale Rieff tesse l’elogio non è altro, dunque, che un uso più consapevole della memoria, tanto più necessario ora che si profila un’epoca «dopo la memoria»: dopo la scomparsa dei testimoni, dopo l’indebolirsi della testimonianza. Una lezione forse parziale, ma non per questo meno illuminante può venire dalla letteratura.

Nel suo Una questione finale. Poesia e pensiero da Auschwitz (Book, pagine 120, euro 16,00) il critico Alberto Bertoni fa notare, tra l’altro, come la coincidenza tra verità e trasmissione della memoria posa verificarsi anche nell’opera di chi non è stato testimone diretto dei fatti che racconta, come accade per esempio in Vedi alla voce: amore di David Grossman. L’invenzione artistica – ben diversa dalla sfrontata falsificazione descritta da Caviglia in Olocaustico– diventa così un possibile strumento di testimonianza: non esclusivo, però, né sottratto al rigore della verifica storica. L’impressione, in ogni caso, è che nei prossimi anni si renderanno necessari un affinamento e una ridefinizione di prospettive, come già adesso suggerisce Michele Guerra nel suo Il limite dello sguardo( Cortina, pagine 150, euro 16,00), un’indagine sul cinema della Shoah che è interessante leggere in parallelo con il libro di Valentina Pisanty, anche e specialmente quando, come nel caso del film Il figlio di Saul di László Nemes, il giudizio dei due autori tende a divergere. Dal classico Notte e nebbia di Alain Resnais al severo Austerlitz di Sergei Loznitsa (un documentario realizzato nei luoghi del cosiddetto “turismo dell’Olocausto”), c’è sempre un momento in cui lo sguardo del personaggio si gira verso lo spettatore. Potrebbe essere quello, lascia intendere Guerra, l’istante in cui il dovere del testimone si compie in tutta la sua drammatica complessità.

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