lunedì 25 giugno 2012
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Ci affacciamo dal parapetto del Bund, il lungofiume in stile coloniale di Shanghai, sul fiume Huangpu che qui si getta nel grande Fiume Azzurro. Passano chiatte, grandi battelli che portano container, motoscafi multipiano per turisti. Sulle acque tormentate del fiume che fino a cinquant’anni fa ospitava giunche a vele spiegate si specchiano i grattacieli di Pudong, chiassosi, pacchiani come una collezione di accendini ingigantiti. La giovane urbanista cinese che mi accompagna, Ren Yeaung, fa parte di un gruppo, Urban China, che osserva con occhio molto critico il rapidissimo estendersi delle città cinesi. Ma quando le chiedo se non pensa che questo che vediamo sia in fin dei conti un rincorrere l’America dei grattacieli, mi risponde «No, questa è Hong Kong». E ha ragione, qui il simbolo della crescita non è più l’America, ma la gallina dalle uova d’oro del capitalismo alla cinese, l’autonoma Hong Kong, amata e temuta dal regime attuale e amata ad oltranza da tutti i cinesi che vogliono essere parte della crescita vertiginosa del Paese. Ren mi mostra con orgoglio una foto di Pudong vent’anni fa, una penisola di terra sul fiume fatta di campi, canne e anfratti paludosi. Pudong è per Shanghai il simbolo del cambiamento, di quello che questa città ha riconquistato per ridiventare uno dei poli più importanti del Paese. Quando fu fondata dagli inglesi era un porto-comptoir che serviva a imporre al Celeste impero al tramonto le leggi di Albione. Qui gli inglesi avevano imposto a cannonate il commercio dell’oppio di cui la città era diventata il centro di consumo e smistamento. Lungo lo stesso fiume che stiamo guardando si assiepavano migliaia di sampan e di giunche che ospitavano fumerie d’oppio e bordelli. Poi c’è stata la rivoluzione, che è scoppiata proprio qui come resistenza all’occupazione giapponese e poi come eliminazione della dinastia imperiale e proclamazione della repubblica. E qui il Partito comunista ha tenuto le riunioni più importanti che hanno portato al potere Mao e il maoismo. Dopo la rivoluzione però la città non si è più ripresa e c’è voluto il cambiamento imposto da Deng Xiaoping, quel «arricchitevi! Non importa il colore del gatto, se è nero o bianco, l’importante è che prenda i topi» per ridare a Shanghai e al suo porto un ruolo di primaria importanza. Oggi ha ventitré milioni di abitanti e ogni notte dalle campagne arrivano migliaia di immigrati.
Shanghai è il simbolo del capitalismo socialista e le campagne sono il simbolo, ormai, dell’arretratezza: è per questo che oggi in Cina ci sono trecento milioni di contadini che si sono inurbati. Ren mi racconta di insediamenti provvisori, baracche, al confine della città, di contadini che si mettono a riciclare quello che trovano nelle discariche in periferia e vengono costantemente ricacciati indietro, ma il flusso pare inarrestabile. Se mi volto verso il Bund vedo una croisette elegantissima, i grandi palazzi dei magnati dell’oppio di un tempo – Sassoon, Jardine – sono oggi alberghi di lusso e boutique d’alta moda internazionale. Si viene qui con la famiglia per farsi fotografare perché questo è il simbolo della Cina che ce l’ha fatta. Se un tempo sotto Mao l’accento era sull’autenticità della classe contadina portatrice del suzhi, la qualità rivoluzionaria che consisteva nel jianku puso, «masticar amaro e viver semplice», oggi la stessa autenticità è diventata patrimonio della classe urbana capace di nengzhen huihua, produrre e soprattutto consumare “autentico”. Lo stesso termine suzhi, autenticità, è attribuito alle merci non contraffatte, ai veri Gucci, Prada, Nike. Le classi urbane e il partito guardano con sospetto il mondo contadino, accusato di essere arretrato, gestito dalla corruzione dei burocrati locali e soprattutto oggi in subbuglio: i contadini sono scontenti della direzione che ha preso il Paese, che dà loro solo la possibilità di essere sospesi tra una campagna dove non si riesce più a vivere e una città che non li vuole. Shanghai è un mostro di condomini alti tutti uguali, appena si lascia il centro e si va verso la periferia. È il modello sovietico di abitazione, squallido, identico, livellatore. Un architetto italiano che studia qui i meccanismi di socializzazione, Anna Laura Govoni, mi mostra però che persiste nel centro il modello di cortili e case basse, quei shikumen che stanno diventando alla moda solo adesso ma che in molte parti della città, perfino del French Concession elegante e alberato, mantiene un carattere molto popolare. L’indicatore, mi mostra, è l’abitudine inveterata e osteggiata dal governo a esporre i panni fuori, un’abitudine che il popolo di Shanghai si porta appresso perfino quando viene di forza dislocata in edifici di sessanta piani. Prospicienti dalle finestre, enormi intelaiature di ferro e canne permettono di mettere i panni ad asciugare anche al quarantacinquesimo piano. Faccio marcia indietro dal Bund verso la città vecchia. E a pochi isolati dal lungofiume chic appare la città povera e poverissima, densa di mercati di strada, di gente che mangia ravioli e anatre laccate, teste di pesce e tofu  marcito. È una festa degli occhi e dei colori, ma la densità dell’abitare qui, l’affollamento di case e cortili racconta una povertà estrema che si arrangia fin quando non viene fatta sloggiare con le demolizioni annunciate ventiquattr’ore prima e che mentre attraverso i mercati appaiono come squarci di immondizia e rovine.
Ma c’è un altro aspetto che sono venuto a scoprire qui, quello di una imprenditoria italiana inaspettata e giovane e giovanissima. Questa è una città di grandi opportunità. La sera mi incontro con tre giovani donne che hanno studiato cinese e lo parlano senza complessi. La più giovane, Giulia La Paglia, si occupa di social network e mi spiega che, in una situazione in cui ogni riunione di più di trenta persone è proibita, le reti informatiche sono diventate lo strumento più importante di commento su tutto, politica, stile di vita, musica, consumo. Lei fa da tramite per le offerte commerciali dei produttori italiani al pubblico di seicento milioni di utenti cinesi. Accanto a lei Alice Rossetto lavora per costruire un’offerta turistica italiana alle nuove classi alte e medie di Shanghai, che vogliono viaggiare e scoprire l’Europa. La terza, Martina Gherlenda, si occupa di malintesi tra maestranze e quadri locali e padronato italiano che viene qui a delocalizzare le produzioni. Sono contente, vitali e non rimpiangono un attimo la scelta di stare qui, di avere investito se stesse qui. Come loro ne incontrerò nei giorni che seguono centinaia di altri, italiani ed europei che hanno scelto Shanghai come testa di ponte per capire cos’è la Cina di oggi, cosa può offrire loro e cosa loro possono fornire qui che serva e sia richiesto. Ed è molto. Perché questo è un Paese percorso da fremiti e da onde impressionanti, un luogo dove la globalizzazione e la modernizzazione ha radicalizzato le differenze di opportunità, ma anche fatto emergere le individualità, come racconta in un bellissimo libro, Operaie (Adelphi), l’antropologa sino-americana Leslie T. Chang. La mobilità in tutto il Paese ha dato autonomia alle donne più che agli uomini, perché qui le donne sono da sempre quelle che si fanno carico di tutto, ma sono anche capaci di cambiare se la situazione lo richiede, hanno il coraggio di spostarsi, rischiare la propria vita a Shenzhen e, per chi ci riesce, a Hong Kong – lo racconta Fruit Chan in un bellissimo recente film, Durian Durian. Oppure, semplicemente, saltano da una fabbrica all’altra dove trovano condizioni migliori. È un Paese complicato, immenso, come questa città, ma pieno di storie personali e di nuove storie collettive a cui prestare cuore e orecchio.
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