lunedì 13 aprile 2015
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​Il Tasso aveva dato vita, cuore, passioni ai manichini svagati dell’Ariosto; aveva - con ilTorrismondo - portato in scena la colpa senza grazia e senza riscatto; sulla signoria della ragione già s’allunga l’ombra di una «maculata conscienza» e l’appello alle Furie; Seneca torna a trionfare, Macbeth è vicino: «Abbia l’avanzo almen de’ miei furori» (I, 731). Ma occorreva ancora che quella colpa fosse un destino, non un errore; ben lo vide Francesco De Sanctis (a proposito della Commedia stessa di Dante): «Queste grandi figure, là sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue, attendono l’artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici. E l’artista non fu un italiano: fu Shakespeare» (Storia della letteratura italiana, VII: La Commedia, § 30).William Shakespeare (Stratford-upon-Avon, 1564 - 23 aprile 1616) nasce nell’anno della morte di Michelangelo e muore il giorno stesso di Cervantes: eredita il titanismo dell’uno e condivide con l’altro la coscienza della vanità delle apparenze, se tutto non è che platea e teatro nel teatro. Con lui l’uomo non ha più misura: gli abissi di Pascal sono già squadernati nel "teatro dei mondi" shakespeariano: «Ma scusateci: come uno sgorbio di cifre serve in breve spazio a rappresentare un milione, così lasciate che noi, semplici zeri in questo gran conto, mettiamo in moto le  forze della vostra immaginazione» (Enrico V, Prologo). In un universo di vorticose mutazioni ove tutto è maschera (spesso appaiono i bagliori dei mondi di Giordano Bruno: a Londra negli stessi anni, nei gruppi frequentati da John Florio, sodale di Shakespeare), Malvolio potrà affermare: «Non è che un caso, perché tutto è caso» (La notte dell’Epifania, atto II, sc. V). E dunque, in questa grande vicissitudine, senza posa e senza volto, vale l’avvertimento di Amleto: «Noi sfidiamo gli auspici: v’è una speciale provvidenza nella caduta di un passero. Se è ora, non è a venire; se non è a venire, sarà ora; se non è ora, pure verrà; l’essere pronti è tutto» (Amleto, atto V, scena II). The readiness is all: è il motto che affascinò Cesare Pavese, lascito che è servito di stoico baluardo a chi resiste pur senza sperare. Ma accanto ad esso, Shakespeare pone una seconda possibilità: quella scandita da Edgar: «Ripeness is all» (Re Lear, anche qui atto V, sc. II): l’essere maturi è tutto. L’istante e la distanza, l’occasione e la temperanza: tutto Shakespeare afferra, giustifica, ricompone, indossa; ma tra il "comprendere" e lo "sfoderare" egli è per il secondo, acuminato e lancinante: egli vuole «non lasciarsi più indurre a trascurare, per le immagini, il grido, […], il grido della passione, […], grido nello Shakespeare pieno d’echi di popolo, urlo», come sottolinea Ungaretti (Significato dei sonetti di Shakespeare). L’inconstant stay dei Sonetti: «Il sorto concetto di tale permanenza incostante / Dinanzi alla vista voi, ricco di gioventù, mi pone / Mentre con Rovina gareggia devastatore il Tempo» (Sonetto XV) si dilacera nell’urlo di Macbeth, nel livido e affilato machiavellismo di Angelo e Escalo: «ANG. "Non dobbiamo fare della legge uno spauracchio, alzandola per spaventare gli uccelli da preda, e poi lasciarle conservare la stessa forma, finché l’abitudine ne faccia il loro posatoio e non il loro spavento". ESCA. "Sicuro, ma cerchiamo di essere affilati e incidiamo soltanto un poco, anziché far piombare giù e schiacciare a morte"» (Misura per misura, Atto II, sc. I).
The readiness is all: certo, e Otello è pronto, deciso: «L’azione non conosce indugi" (Atto V, sc. II) sino a far morire Desdemona e avvolgersi nella stessa morte; precipita nella morte l’agire; forze telluriche agitano Calibano, le sue maledizioni, i serpi che l’avvolgono e s’avvinghiano al suo dire barcollante: «Ban, ban, Cacaliban, / servo e padrone si muteran. / Allegria, allegria! La libertà, la libertà. / Allegria! Libertà! " (La Tempesta, Atto II, sc. II).Di fronte a questo sprigionarsi di forze ctonie, sta l’altro Shakespeare, quello che raccoglie nel prezioso scrigno del silenzio e dell’humilitas il senso appena baluginante dell’esperienza umana, avvolta nel minimo: «Così considerando, possiamo trarre profitto da tutte le cose che vediamo; e spesso, per nostro conforto, troveremo che lo scarabeo chiuso nella sua scaglia è meglio protetto dell’aquila dalle grandi ali» (Belario nel Cimbelino, Atto III, sc. III). È la citazione esplicita del celebre apologo di Erasmo Scarabeus aquilam quaerit, che viene eletto - più umile forma vivente - quale emblema dell’essenza stessa del Sileno cristiano: «Ma lo scarabeo è un Sileno: […] quel fragile corpiciattolo nasconde un enorme vigore d’animo, un’eroica fermezza di carattere». Così nel teatro di Shakespeare: se dovessi scegliere il dramma che più mi sembra raccogliere tutto il dolente retaggio della condizione umana, l’indignitas non meno che la dignitas hominis, non potrei che rivolgere il pensiero al re Lear, a quel finale in cui  - tutto essendo ormai perduto - Re Lear e Cordelia si avviano alla prigione, piccoli scarabei dell’Eterno: «LEAR. "Vieni, andiamocene in prigione; soli, noi due canteremo come uccelli in gabbia: quando tu mi dirai di benedirti, io mi inginocchierò, e chiederò il tuo perdono. Così passeremo la vita pregando e cantando, e ci racconteremo delle vecchie storie, e sorrideremo delle farfalle dorate; sentiremo i poveri vagabondi chiacchierare, fra loro, delle notizie di corte; e anche noi parleremo con essi di chi perde e di chi vince; di chi sale e di chi scende; noi faremo nostro compito il mistero delle cose, come fossimo spie di Dio"».
«And take upon ’s the mystery of things / As if we were God’s spies»: spie di Dio, non alati messaggeri, né araldi, né profeti: spie velate, nel campo notturno di un mondo maligno: «E fra le mura di una prigione cancelleremo dalla memoria il ricordo delle congiure e delle fazioni dei grandi, che vanno e vengono come la marea sotto la luna» (Atto V, sc. III); passando «senza stupori per presente o per passato» (Sonetto 123), concentrati nell’essenza: «Ma i fiori distillati, anche se vien l’inverno, / Perdon sol la parvenza: l’essenza vive in eterno» (Sonetto 5).
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