venerdì 22 dicembre 2023
Il pittore bergamasco del Cinquecento, tra i massimi ritrattisti della storia dell’arte, è protagonista di una mostra di rara completezza in corso alle Gallerie d’Italia
Giovanni Battista Moroni, "Ritratto di vecchio seduto con un libro (Pietro Spino)", 1576 (particolare)

Giovanni Battista Moroni, "Ritratto di vecchio seduto con un libro (Pietro Spino)", 1576 (particolare) - "Moroni. Il ritratto del suo tempo". Milano, Gallerie d'Italia

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«L’unico ritrattista puro che l’Italia abbia mai prodotto»: così Bernard Berenson definiva Giovanni Battista Moroni. Probabilmente aveva ragione, anche se in quel “mere” inglese, tradotto qui con “puro”, si sente una semplicità che suona forse un po’ diminutiva (a lui Berenson preferiva comunque il suo maestro Moretto). Forse ci sentiamo più vicini a Jacob Burckhardt, che aveva definito uno dei suoi ritratti espressione di “un’esperienza di vita immensa”. Ma Berenson ha ragione nel riconoscere in lui un autore a due velocità: certamente se avessimo perduto tutti i ritratti di Moroni (e invece per fortuna ne sono arrivati a noi molti) e ci fossero rimaste soltanto le severe e composte pale d’altare, lo incaselleremmo in una buona fila secondaria. Ma come bruciano i suoi ritratti. Sfrontati, carichi di energia. Flash che annichiliscono il tempo.

In un anno prodigo di belle, talvolta grandi mostre, quella che le Gallerie d’Italia a Milano dedicano al pittore bergamasco (1521-1580), campione del “ritratto al naturale”, ne è eccezionale conclusione ("Moroni. Il ritratto del suo tempo", fino al 1° aprile). Curata da Simone Facchinetti e Arturo Galansino, appare di rara completezza, grazie a prestigiosi prestiti internazionali, e si articola in nove capitoli di tipo tematico e solo in parte cronologico: dal magistero di Moretto – ma anche del Lotto, l’altro nume tutelare moronesco – si passa per l’esperienza a Trento, allora sede del Concilio e unica vera trasferta dell’artista fuori dai confini di Bergamo, e quindi per le diverse tipologie di ritratto (compreso quello devozionale, caratteristico della pratica dell’orazione mentale) utilizzando la presenza o meno del ritratto, legata allo spartiacque dei dettami tridentini, anche come strumento di analisi per le pale d’altare.

Da segnalare in particolare la sezione finale, un focus sugli abiti, a partire dal Sarto, a lungo il suo lavoro più celebre. Il virtuosismo nella resa dei tessuti, a partire dalle variazioni materiche e luminose del nero, “il” colore della moda del tempo, risponde alla necessità di dichiarare lo status del personaggio attraverso l’abito, a fronte del realismo dei tratti fisiognomici e dell’atteggiamento disinvolto.

L’abito non è semplicemente ostentazione di ricchezza ma un vero e proprio codice visivo, normato non solo dalle convenzioni e dalla moda ma anche da leggi suntuarie, spesso aggirate, e linee politiche (il saggio di Roberta Orsi Landini, nel catalogo edito da Gallerie d’Italie e Skira, è in questo senso una utilissima guida). Moroni dedica all’abito la stessa attenzione e cura che alla fisionomia. Una restituzione così fedele da lasciare almeno fantasticare una competenza anche tecnica di prima mano su tessitura, tintura e sartoria. Categoria trasversale, nell’idea dei curatori, è invece l’amore di Moroni per i “giochi d’ombre”, che appaiono essere il vero “ingrediente segreto” della sua pittura. I suoi fondi grigi, a cui secondo Longhi Caravaggio avrebbe guardato con insistenza, animati da bagliori e ombre sono così belli che reggerebbero anche se ritagliassimo le figure e lasciando che una silhouette nera ne evidenziasse la gloria pittorica.

Il confronto con l’opera religiosa porta in evidenza come il ritratto sia davvero il genere parlante della modernità. Moroni appare ogni giorno sempre più vivo. È un anacronismo, ma per noi è ormai impossibile non individuare nei suoi lavori, come già fece Venturi, la natura più vera del ritratto fotografico, quello che dimentica la posa e cattura la vita in movimento: nonostante siano dipinti costruita con cura estrema, i personaggi non sono solo rappresentati ma si mostrano al vero: un taglio accennato della bocca, una espressione sorniona, uno slittamento dello sguardo verso il disincanto, quell’istante in cui il sovrappensiero fa cadere la maschera. Poco amante del ritratto frontale, Moroni sembra chiamare chi gli sta di fronte, così da farlo voltare verso la voce. È possibile immaginare facilmente Moroni che conversa con il suo soggetto. Quell’interloquire si radica nell’immagine, prosegue nel tempo. Il ritratto come laica conversazione.

Si insiste molto e giustamente sull’importanza per Moroni della ritrattistica lottesca. Ma questi sono ritratti in cui è la persona a mostrarsi in modo spregiudicato, mentre in Lotto si avverte non di rado una sottile crudeltà. Dal veneziano però Moroni riprende la capacità di concentrare potenziale psicologico e narrativo al di là del viso: le mani e gli arti stessi escono dalla convenzione e diventano nuovi poli di densità comunicativa. La forza con cui lo scultore Alessandro Vittoria stringe il brandello di statua è un’eco fiammeggiante dell’espressione del suo volto. Gabriel de la Cueva, futuro governatore di Milano, è pura energia compressa.

Giovanni Battista Moroni, 'Ritratto di Gabriel de la Cueva', 1560

Giovanni Battista Moroni, "Ritratto di Gabriel de la Cueva", 1560 - "Moroni. Il ritratto del suo tempo". Milano, Gallerie d'Italia

Nel suo saggio Francesco Frangi riconosce nella linea Lotto-Savoldo-Moretto-Moroni «una via al ritratto radicalmente differente rispetto al mainstream giorgionesco e tizianesco» all’interno della pittura di area veneziana, tanto lagunare quanto di terraferma, mettendo in crisi un determinismo geografico (Lombardia uguale realtà) che ha assunto un valore quasi «genetico», così che appare lecito chiedersi se «l’orientamento naturalistico» non costituisca «una delle tante declinazioni di stile che potevano prendere forma all’interno dell’ambiente veneziano, assai meno monolitico di quanto si è portati a ritenere». Insomma, «la geografia degli orientamenti stilistici nell’Italia settentrionale di quei decenni non possa essere costretta entro steccati troppo rigidi».

Piuttosto, Frangi individua nell’attaccamento di Moroni al proprio contesto, con una Venezia forse mai frequentata e con l’esperienza tridentina vissuta come «un’eccezione mai più replicata e probabilmente mai più desiderata», uno degli elementi che avrebbe permesso «alla tradizione naturalistica, specie nel campo del ritratto, di trovare nei centri della Lombardia veneta una definitiva accoglienza», fondando una tradizione che dura fino ai «ritratti giovanili di Giacomo Ceruti». E che forse può estendersi ancora un passo oltre, fino ai ritratti di quel Giuseppe Carnovali detto il Piccio, geniale scheggia eteronoma dell’Ottocento lombardo, che proprio ad Albino, il borgo dove Moroni nacque, visse e morì, sarebbe cresciuto.

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