martedì 3 aprile 2012
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«Mi sono spaccato la testa sulla Struttura originaria. In Cattolica giravamo con il libro in mano all’epoca del grande dibattito tra il professore e il maestro Bontadini, ci trovavamo in 4 o 5 a leggerlo… È stata un’esperienza che ci ha insegnato a ragionare, ma ci è costata una fatica estrema». Così il cardinale Angelo Scola ricordava qualche anno fa, in un dibattito con Emanuele Severino pubblicato dalla rivista Humanitas, l’arrovellarsi di un manipolo di studenti universitari sul primo importante libro del filosofo bresciano. Quello che diede il via a un percorso speculativo tra i più importanti del ’900 italiano e a una contrapposizione di Severino al cristianesimo che avrebbe portato al suo famoso allontanamento dall’Università Cattolica nel 1970. La Struttura originaria era apparsa per l’editrice La Scuola nel 1958. Severino aveva 29 anni – cattedratico dall’età di 23! –, era un allievo di Gustavo Bontadini e godeva di una speciale stima da parte di monsignor Francesco Olgiati, co-fondatore dell’Università Cattolica e figura che il padre dell’Ateneo, Agostino Gemelli, ascoltava maggiormente nelle questioni filosofiche. L’uscita di quel testo non fu problematica. «Professore, chi vuole che capisca certe cose», disse Olgiati a Severino un giorno, rassicurandolo. I nodi sarebbero venuti al pettine 8 anni dopo, con la pubblicazione sulla Rivista di Filosofia Neoscolastica del saggio «Ritornare a Parmenide» e con gli scritti successivi, che avrebbero definito le tesi portanti dell’autore: la necessità dell’essere come essere e l’impossibilità del suo non-essere; quindi la negazione del divenire e della contingenza, la coincidenza tra ogni cosa e l’Essere assoluto ed eterno, fino a una sorta di panteismo radicale; la lettura della filosofia occidentale – con la sua accettazione che l’ente possa essere anche ni-ente – come un processo irreversibile di nichilismo. eccetera.
Eppure Severino sempre ha ribadito che La Struttura originaria era essenziale per comprendere in pienezza il suo pensiero, il punto di partenza logico che conteneva già in sé quanto sarebbe stato esplicitato in seguito. Nel lungo saggio introduttivo all’edizione Adelphi del 1981 – edizione che presenta alcune modifiche e tagli rispetto all’originale – Severino scriveva che La Struttura originaria tentava «di esprimere per la prima volta, ma nel modo più determinato e concreto, l’inconscio che sta alle spalle della stessa struttura inconscia dell’Occidente». E che in essa si affacciava «una lingua filosofica nuova, quella della testimonianza della Necessità». Oggi che a distanza di più di 50 anni l’editrice La Scuola pubblica la ristampa anastatica, nuda e cruda, della Struttura Originaria anno 1958 (pagine 416, euro 23,50) si riaffaccia anche una domanda: Severino era già tutto contenuto in quella prima poderosa opera? O meglio, il Severino anti-metafisico sotto il profilo teoretico e a-teo/a-morale sotto quello etico-religioso è stato una conseguenza inevitabile del primissimo Severino, ancora pregno dell’influenza di Bontadini, oppure no? Un lettore autorevole come padre <+nero>Cornelio Fabro<+tondo>, che analizzò per conto del Sant’Uffizio le opere del filosofo – analisi considerata da Severino una delle più serie sul suo conto – era convinto della prima ipotesi. E cioè che non ci fosse soluzione di continuità teoretica tra la produzione temperata del Severino milanese e quella del periodo veneziano e oltre, segnata da una «compiacenza di irrisione verso la trascendenza e i valori del cristianesimo». Altri restano più problematici. Per Leonardo Messinese, ordinario di Storia della Filosofia moderna alla Pontificia Università Lateranense, «ne La Struttura originaria Severino affermava la trascendenza dell’essere rispetto alla totalità dell’esperienza, cioè la trascendenza di Dio rispetto al mondo. La svolta, con Ritornare a Parmenide, consiste nel venir meno della "trascendenza" in senso pienamente metafisico, cosicché Dio non è più l’essere assoluto che crea liberamente il mondo. In seguito, per Severino "dio" diverrà la stessa totalità degli enti in quanto se ne sta fuori dell’apparire, e il "mondo" diverrà questa stessa totalità di enti in quanto si manifesta. A partire da queste considerazioni, si dovrebbe chiarire se, al centro della "questione Severino" stia nella sua rigorosa semplicità il Principio di Parmenide che afferma l’opposizione assoluta dell’essere al non essere, come egli fermamente ritiene, oppure vi sia piuttosto una certa "curvatura" di quel Principio, che ha condotto Severino a negare la trascendenza dell’essere assoluto e a "divinizzare" gli enti del mondo». Per padre Giuseppe Barzaghi, dello Studio filosofico domenicano di Bologna, anche lui allievo di Bontadini e fine lettore di Severino, «l’intuizione teoretica centrale della Struttura originaria è che ogni determinazione è sempre con la compagnia di qualsiasi altra determinazione, cioè dell’intero universo. Detto logicamente: uno per dire A deve dire che A è non-non-A, ma dentro questo non-non-A c’è tutto l’universo diverso da A, che è implicato nel modo di essere escluso. È un discorso un po’ tecnico… in sostanza vuol dire che ogni volta che io considero un minimo nell’universo, sono costretto a considerarlo così come lo considera Dio. L’aspetto positivo che può essere assunto anche in teologia dalla Struttura originaria è proprio lo sguardo contemplativo di Dio – che vede l’universo in ogni frammento di realtà – e che viene comunicato da Dio a coloro che sono divinizzati con la grazia e i sacramenti. Certo, l’uso della Struttura originaria o di altri aspetti del pensiero di Severino in teologia è problematico, non lo nega nessuno. Ma non fu forse problematico anche l’uso di Aristotele da parte del pensiero cristiano?». Una sfida – quella di Barzaghi – che sta a un estremo dello spettro dei pareri su Severino e la Struttura originaria. All’altro estremo, oltre al giudizio di Fabro, si potrebbe forse collocare questa battuta di Giovanni Reale: «Io definisco la filosofia di Severino come espressione di una tesi che è falsa – negazione dello spessore ontologico del divenire e, quindi, del non essere e della morte – però espressa nel modo più coerente e più perfetto. Ma con Nicolas Gomez Davila<+tondo> penso che la coerenza di un discorso non sia prova di verità, ma solo di coerenza».​
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