domenica 19 aprile 2009
A ottant’anni dalla nascita e a venti dalla morte, le intense pellicole dirette dal grande regista romano continuano a segnare uno spartiacque nella storia del cinema. Con i suoi capolavori «spaghetti western» creò un’epica che generò nuove mitologie popolari e anticipò il postmoderno.
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Sergio Leone, di cui si celebrano in questi giorni i vent’anni dalla morte (e gli ottanta dalla nascita) era un uomo grosso e pacifico, pieno di humour, ma molto determinato nelle sue convinzioni. Cresciuto nel mondo del cinema, figlio di un regista del muto, veniva dalla gavetta e avrebbe potuto rimanere per sempre uno di quei tecnici del cinema romano di un tempo, bravi, smaliziati e sornioni. Aveva imparato a seguire tutte le fasi della preparazione, lavorazione, ed edizione di un film, e imparato da solidi artigiani, e occasionalmente si era confrontato con produzioni molto impegnative e ambiziose. Ricordava per esempio con molto piacere di essere stato chiamato da De Sica sul set di Ladri di biciclette, per fare uno dei pigolanti pretini che a Trastevere cercano riparo dalla pioggia, in una bella scena di quel capolavoro neorealista. Forse non pensava neanche alla regia, come i suoi amici Fulci e Corbucci, se non gli fosse capitato di dover sostituire Mario Bonnard, regista di poche ambizioni, per alcune scene spettacolari del remake di un film “peplum” (come chiamavano questo nostro genere cinematografico i francesi, mentre per gli italiani erano i “sandaloni”), Gli ultimi giorni di Pompei. Bastò perché gli affidassero poco dopo la regia di Il colosso di Rodi, nel 1961, altro filmone antico-romano anzi greco. E forse sarebbe rimasto un regista minore buono a tutto se, seguendo la voga appena nata degli spaghetti western, non avesse portato al trionfo il suo secondo film, Per un pugno di dollari, che lanciò Clint Eastwood. Lo firmò Bob Robertson dal nome del padre, Roberto Roberti, secondo l’uso del tempo: i nostri western e i nostri horror erano credibili per il pubblico popolare solo se firmati con nomi americani. I primi anni Sessanta furono una grandissima stagione per il nostro cinema, che sfornava capolavori come panini, e non solo per il cinema “d’autore”: anche per il cinema “di genere”. Nel decennio successivo, invece, i capolavori furono molti meno ma il cinema di genere fu l’ultimo guizzo vitale del nostro cinema, prima della sua decadenza, ed ebbe il merito di ritardare la crisi di pubblico che era già da tempo in atto negli altri Paesi. Rispetto ad altri registi, Leone fece pochissimi film, sette in tutto con l’aggiunta di Il mio nome è Nessuno, firmato da Tonino Valerii ma ideato, prodotto e in parte diretto da Leone, un western semicomico che appartiene di fatto alla serie dei “Trinità”. Di questi film, tolto il “sandalone”, cinque sono western, e uno è un film di gangster. Tra gli western, la trilogia composta da Per un pugno di dollari (la sceneggiatura era un plagio da Kurosawa), Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo, girata in tre anni dal ’63 al ’65, fu un successo mondiale ed enorme, lanciò una moda, e questo successo fu ampliato dal film-sintesi C’era una volta il West e da Giù la testa, che era un western ma sullo sfondo della rivoluzione messicana. Ormai Leone era un Autore con la maiuscola, che poteva fare quel che voleva e darsi i suoi tempi, ormai non girava più in Spagna o vicino Roma ma direttamente negli Usa, sui luoghi dell’azione, senza per questo che i suoi film diventassero più “americani”. Il cinema mutava e anche il western cambiava, con Sam Peckinpah e con il nostro Leone, nel segno della dismisura. Ma se Peckinpah era un anarcoide e un disperato, che male accettava la mutazione in atto nel suo Paese e nel mondo, la fine di un’epoca eroica, il brutale conformismo di massa, il dominio alienante dei media, l’ossessione del mercato e del consumo, Leone giocava, all’inizio, dilatando ogni spunto e ogni immagine, era un manierista che elaborava i dati di un’altra cultura e tradizione distanziandoli, leggendoli in assenza di ogni radicamento reale. In sostanza, inventava un modo nuovo di raccontare con il cinema, ieratico e quasi astratto. In questo senso è un sperimentatore del post-moderno ed è il padre o patrigno di tanta presunta “epica” letteraria e cinematografica contemporanea, disancorata da tutto, e che non riesce più – come invece riusciva ancora a Leone – a creare nuove mitologie popolari, di massa. Con Leone, nel momento della sua agonia e morte il western si fa più grandioso ed esplosivo, e l’iperrealismo dei particolari è consono alla falsità dell’insieme. Egli è stato in definitiva un grande regista vuoi manierista che barocco, che ha trovato in C’era una volta il West e poi in C’era una volta in America lo scenario ideale, desunto dalle mitologie cinematografiche in cui era cresciuto (Tom Mix e John Ford per il western, il cinema degli Hawks e LeRoy e Walsh degli anni Trenta per il film gansteristico), per esprimere le sue ossessioni, con quel tanto di sado-masochismo che si portava dentro. È in C’era una volta in America – il suo film più intenso e convinto – che ha trovato infine (una dozzina d’anni dopo il primo Padrino, molto meno affascinante) lo sfondo più consono al suo romanticismo, rendendo più grande del vero e idealizzandola non tanto l’avventura della colonizzazione brutale del West americano o quella del gangsterismo o della mafia quanto ciò che ne sta alla base, l’avventura della grande migrazione verso gli Usa di una massa di poveri ebrei, irlandesi, italiani cacciati per fame dall’Europa. Lunghissimamente preparato, C’era una volta in America è un film affascinante e grandioso, un poema dell’emigrazione e della fragilità dell’amicizia in una società spietata, come lo sarebbe stato, certamente più crudele, il film che preparò molto a lungo e che non fece in tempo a girare sulla battaglia di Stalingrado, l’avvenimento decisivo della Seconda guerra mondiale.
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