martedì 6 novembre 2012
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«La maglia del Bologna sette giorni su sette, pochi passaggi molti dribbling, quanti vetri spaccati…», cantava un melanconico Luca Carboni in quell’inverno del 1987. L’ultima cometa rossoblù, Roberto Mancini, era già volata alla Samp e a Bologna la nuova stella per acclamazione popolare era quella di Sergio Isabella, classe 1969.Il ragazzino nato ai bordi di una periferia bolognese violenta, annichilita dalla droga, che negli anni ’80-’90 ha fatto più morti della Seconda guerra mondiale in quei quartieri che vanno da Ponticella al Pilastro, passando per i palazzoni di via Torino. È li, in zona Mazzini, tra i cortili affollati dai figli dei “maruchen”, le famiglie affamate di riscatto arrivate dal profondo Sud, che Sergio (ultimo di sei figli di genitori siciliani) palla al piede dribblava tutti, dalla mattina alla sera. Dal Felsinea di mister Roberto Baschieri, che lo prese pulcino, alla maglia numero “10” delle giovanili del Bologna, fu un lampo di genio dei suoi. Chi del Bologna si intende, ricorda di gol a grappoli, magie da fantasista dotato di destro e sinistro, con in testa il mito non rossoblù, ma comunque dotto e regale di Michel Platini.Un futuro assicurato, scommettevano nel Bologna il tecnico Gianni Mantovani, «il papà di Nicoletta, la seconda moglie di Pavarotti» e la “bandiera” Tazio Roversi (una delle “morti misteriose” del calcio rossoblù). Un predestinato Sergio, con la maglia del Bologna sette giorni su sette, stampata nell’anima. «Ero arrivato a un passo dal debutto in prima squadra assieme al mio compagno, il portierone Gianluca Pagliuca. Lui ce l’ha fatta, io invece ora eccomi qua…». Venticinque anni dopo, lentamente, Sergio racconta la sua storia di angelo del calcio caduto in volo, marcato a uomo dalla malattia, steso, immobile, su un letto della clinica Villa Nigrisoli. Il suo nome non compare negli annali della Serie A, mentre è finito nell’album dei calciatori colpiti dal “Morbo del pallone”: la Sla. Entriamo con suo fratello Mario nella stanza al primo piano del padiglione della Casa di cura dove da due anni Sergio si gioca la sua partita quotidiana contro il Morbo di Gehrig. All’inizio è stata una sfida da solo, con la sua famiglia. «Addirittura mia madre per un mese è stata ricoverata qui con me, dividevamo la stanza. Vedendo suo figlio in queste condizioni si era anche ripresa, poi un anno fa ci ha lasciati».Da uomo d’attacco, ripiegato a difensore contro questo male oscurissimo, arrivato quando anche il rimpianto era stato archiviato come una brutta sconfitta. Se non ce l’aveva fatta con il calcio, Sergio si era realizzato lo stesso, in altri campi. Grazie all’amore della sua ragazza di una vita, la moglie Anna, e della figlia Angelica (8 anni), aveva comunque trovato la felicità e un rifugio sicuro a Formentera. «Con un socio gestivo un ristorante, la “Medida”, avevamo una casa davanti al mare e poco prima che mi crollasse il mondo addosso vivevo con la sensazione costante di toccare il cielo con un dito». Il suo cielo di colpo si è rabbuiato ed è arrivata la “tempesta motoneuronale”: il braccio che si blocca, poi la gamba, infine tutto il corpo e quella sentenza racchiusa in tre lettere di dolore: Sla. Sergio torna a Bologna, ma si isola. Il suo primo maestro di campo, Baschieri, viene a sapere e raduna i suoi ragazzi del Felsinea. «Un giorno hanno aperto la porta i “quattro dell’Ave Maria”: il direttor Andrea Allori, l’ingegner Amedeo Tita, il professor Dino del Mastio e il dottor Claudio Treggia. Grazie a loro è nata la nostra squadra, “Gli amici di Sergio” che con serate e partite di beneficenza hanno raccolto fondi per sostenere le mie cure», dice con gli occhi che sorridono, muovendo appena le labbra. Frasi smozzicate che Fernanda, una giovane peruviana («una delle tre ragazze che si occupano di me, le altre due sono Giulia la moldava e Aziza, una marocchina») traduce dal labiale, mentre amorevolmente gli pulisce la cannula della tracheostomia e come un massaggiatore prima dell’inizio del match aiuta Sergio a compiere quei piccoli e vitali movimenti di un paziente affetto da Sla che ha bisogno di assistenza 24 ore su 24. Quella per ora pur con i soliti ingorghi burocratici c’è. Così come non manca il calore di una città e di una tifoseria che, grazie all’intervento dell’ex bomber Marco Di Vaio, si è stretta attorno al suo ex bimbo prodigio. Oltre 70mila euro raccolti, e testimonianze continue dalla gente dei portici fino alle tante glorie rossoblù: Mancini, Colomba, Marocchi, Bisoli, Gazzaneo, Pagliuca e il presidente onorario del Bologna, Gianni Morandi.«Se Dio ha chiesto a me di sopportare una malattia del genere, vuol dire che sa che io lo posso fare...». Ragiona con una fede incrollabile Sergio, questo fratello speciale che i fratelli Mario e Caterina, chiamano il loro “guru”, rimanendo per ore incantati ad ascoltarlo. «Dio c’era anche prima, sono io che non mi accorgevo perché ero troppo preso da un’esistenza come tante fondata solo sulle apparenze. Come quel voler arrivare a tutti i costi in Serie A e solo con la maglia numero “10” del Bologna». Un sogno che quando svanì non volle accettarlo. Lo mandarono in prestito in C2, al Crevalcore. «Realizzai 25 gol in due stagioni, ma erano campi lontani dalla mia ambizione da “testa matta”...». In Serie A alla fine Isabella c’è anche arrivato, ma con il Calcio a cinque e la squadra messa in piedi apposta per lui dai fratelli Mario e Domenico. «Potevamo prendere anche 10 gol, tanto lui ne segnava 11 in una partita», ricorda divertito Mario. Uno spettacolo durato poco. Finiti i soldi, fine delle trasmissioni. Ma il suo schermo si è oscurato solo quando ha scoperto di essere finito nella rete del misterioso “Morbo del pallone”. «Io non escludo niente. I medici hanno detto che poteva essere stato lo stress a cui avevo sottoposto per anni il mio fisico. Per altri hanno parlato di traumi, di pesticidi nei campi, di farmaci, di doping... Negli anni ’80, ho sentito tanti calciatori, dalla C ai dilettanti, prendere di tutto e farsi fare un’infinità di “punture rosse” che facevano bruciare il sedere e poi saltare per aria... Riuscivano a correre come ossessi per tutta la partita e anche dopo. Io mi sono sempre rifiutato e nessuno mi ha mai costretto, molti invece erano obbligati a prendere quella roba là, altrimenti finivano in panchina e a fine stagione magari perdevano il contratto».Storie già sentite, racconti fatti in silenzio da tanti altri che come Sergio non sono stati ascoltati. «Il giudice Guariniello? Nessuno mi ha mai cercato, né chiesto niente», dice, e lo sguardo si fa triste per un attimo. Poi torna sereno, perché domani viene a trovarlo il suo “piccolo clown” per regalargli il sorriso. «Quando c’è mia figlia Angelica qua dentro splende sempre il sole anche se fuori piove come oggi. L’unica cosa che mi dispiace è di non poterla abbracciare... Ma anche questo è un brutto pensiero che grazie a Dio va via in fretta e io torno a sentirmi il più bel papà del mondo e in fondo penso: sono un ragazzo fortunato...»
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