domenica 14 marzo 2010
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Alla fine basta farsi due conti. Lavoro un tot al giorno e mi resta un altro tot per godermi – che so – la famiglia, i miei hobby, la natura... Eh no, non è così facile; dopo il lavoro ti rimane ben poco da dedicare ad altro e il calcolo diventa esistenziale. A quel punto, quando la lampadina della coscienza si è accesa, ti trovi davanti al proverbiale bivio. Da una parte: lavoro, carriera, soldi. Dall’altra: vita. Lo schema è semplicistico ma non si discosta tanto dalla realtà. Almeno secondo i downshifter: il solito inglese per indicare chi nella vita ha deciso di «scalare le marce». Di rallentare, fermarsi, aprire il finestrino, prendere una boccata d’aria, scendere e farsi una passeggiata. La metafora automobilistica è contenuta in quella parola: downshifting. Tendenza? Forse sì, in origine: ora è un fenomeno – o in termini più telemediatici un costume. Nessuno si scervelli troppo su internet: per downshifting il primo risultato in automatico è «semplicità volontaria», voce che traduce liberamente il neologismo anglosassone. Ma che forse si comprende di più a termini invertiti: «volontà di semplicità». In italiano rende l’idea di quello che cercano sempre più persone, stressate, ammalate di iperattivismo lavorativo, soffocate dalle abitudini meccaniche ufficio-casa-ufficio. C’è l’ingegnere italiano che fugge a vivere in Francia e in un atelier sul canale Saint-Martin passa le giornate a dipingere; il cellulare non squilla perché non ce l’ha, e non usa le mail perché preferisce le lettere. C’è il miliardario austriaco, un imprenditore che viene dalla miseria e ha lavorato tutta la vita, che vende le proprietà (mega-villa, aerei, tenute in Provenza) per dedicarsi alla beneficenza in Sudamerica. E poi c’è il manager di successo, lobbista ricercatissimo, che abbandona il vortice gessato dell’azienda, una carriera sempre in ascesa, uno stipendio da favola e ritmi di vita tachicardici per rifugiarsi in una casetta vicino al mare.Il termine fa la sua prima apparizione in uno studio del Trends Research Institute di New York per individuare le persone che sacrificano stipendio e carriera per «uno stile di vita – recita il New Oxford Dictionary – meno faticoso e meno retribuito ma più gratificante dal punto di vista personale». Ma non è solo questo. Per molti la scelta s’intreccia a convinzioni religiose o spirituali. Alcuni parlano di moderno pauperismo, guardando a san Francesco nell’età del post-moderno. Per altri si lega all’ecologismo e all’ambientalismo e fa proprie le visioni del movimento Slow life: vivere più lentamente, eliminando tutto il superfluo del consumismo compulsivo. È la ricerca della felicità. Il sociologo americano Amitai Etzioni, studioso di forme comunitarie, associa i downshifter ai sostenitori della decrescita economica, che ha tra i suoi massimi teorici il francese Serge Latouche. Non si tratta di hippie tardoni che inseguono sogni aleatori di libertà a bordo di una tavola da surf; sono professionisti con reddito alto, colletto bianco, posti di responsabilità.Vivere per lavorare: è questo il destino che rifiutano, rinunciando a un certo tipo di posizione per tutt’altro, forse di più importante. Semplificano. Secondo gli esperti il downshifting è un comportamento che si sta radicando tra le popolazioni delle società occidentali più ricche, Stati Uniti e Inghilterra in primis. Ma, se una patria deve esserci, questa è l’Australia; dove lo chiamano sea-changing, in onore di una fiction molto famosa sull’isola dove la protagonista abbandona carriera e metropoli e si rintana in un piccolo villaggio costiero. C’è anche uno studio in materia, con le prime cifre: secondo il ministero del Welfare, nel 2008 circa un milione di australiani hanno abbracciato in qualche modo il downshifting, cambiando lavoro, lasciando la città, dilatando l’attenzione per il proprio benessere psicofisico. Il loro identikit – che vale anche per il resto del mondo – è: indifferentemente maschio o femmina, in carriera, tra i 25 e 45 anni. Nel Paese dei canguri è nata anche DownshiftingDownhunder, una rete che gestisce e mette in comunicazione chi ha scelto questo comportamento. Risale al 2007 la ricerca di mercato di Datamonitor, agenzia di Londra, secondo la quale sarebbero 16 milioni i lavoratori pronti a «scalare le marce». È la fine dell’homo consumens? La formula del successo alternativo infatti è: lavorare meno, guadagnare meno, consumare meno; l’esatto contrario della dottrina imperante di un certo capitalismo. Anche la letteratura sul tema si sta ingrossando, tanto da far parlare di un vero e proprio genere, a metà tra saggio di sociologia del lavoro, pamphlet morale e manualistica sul viver sano. Tanti i best-seller, come il testo fondamentale di John Drake Downshifting: come lavorare meno e godersi di più la vita, con il titolo che è già un programma. Una filosofia che da Seneca (De brevitate vitae) arriva a Paul Lafargue (Il diritto all’ozio, 1887) e alla società liquida di Zygmunt Bauman, passa per Latouche e annovera tra i suoi teorici Christoph Baker (Ozio, lentezza e nostalgia), Pierre Sansot (Buon uso della lentezza), Tom Hodgkinson (L’ozio come stile di vita), Viviane Forrester (L’orrore economico). Internet pullula di blog con consigli su come semplificare e alleggerire. C’è anche il Manuale del buon downshifter, di cui è autrice Tracey Smith, ideatrice della «Settimana del Downshifting» nata in Gran Bretagna nel 2007 per celebrare chi frena il ritmo e si ribella alla dittatura del lavoro e alla prigione confortevole fatta di gadget. Prima regola, tagliare la carta di credito e liberarsi dalla cultura del «Compra ora, paghi più tardi». Nessuna dipendenza. Un’utopia possibile, uno stile di vita sempre più ricercato, forse il culmine di uno dei paradossi del sistema capitalista.Robert B. Reich ne è un simbolo, per molti: docente universitario e segretario di Stato al Lavoro sotto il primo governo Clinton, nel 1997 decise di non partecipare al secondo mandato del presidente. Si dimise per dedicare più tempo ai figli. In seguito scrisse anche lui un libro con un titolo d’avanguardia: L’infelicità del successo. Ecco la rivoluzione di chi in fondo cerca semplicemente l’insostenibile leggerezza dell’essere.
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