venerdì 7 maggio 2021
Un saggio analizza monumenti e memoriali relativi alla Seconda guerra mondiale: anche quando animati dalle migliori intenzioni ci vincolano a racconti che schiacciano la complessità
“La Madre Patria chiama!”, scultura alta 85 metri nel memoriale della battaglia di Stalingrado nel Mamaev Kurgan, a Volgograd

“La Madre Patria chiama!”, scultura alta 85 metri nel memoriale della battaglia di Stalingrado nel Mamaev Kurgan, a Volgograd - WikiCommons

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In tempi recenti il monumento, un genere che con il generalizzato disincanto tipico della postmodernità aveva perso molto del suo fascino, è tornato al centro dell’attenzione, con una spinta duplice. Da una parte come oggetto di una nuova iconoclastia che ha investito figure del passato, anche recente, accusate di razzismo e colonialismo: un fenomeno (pur basato su giuste motivazioni) di rimozione prima ancora che di revisionismo e che ormai stiamo imparando a chiamare “cancel culture”. Dall’altra invece, sull’onda dell’emozione scatenata dalla pandemia stiamo assistendo a un nuovo pullulare di monumenti e memoriali intitolati – in ossequio alla metafora della guerra con cui questa tragedia è tuttora raccontata – agli eroi e alle vittime del coronavirus. Ci sarà tempo per ragionare su quanto è stato e verrà realizzato e capire cosa e come questi oggetti sapranno ricordare. Si può però azzardare che tanto nella distruzione dei vecchi quanto nella creazione dei nuovi monumenti, l’istinto e l’urgenza sembrano vincere sull’approccio razionale. Come realizzare monumenti per il futuro se già nel nostro presente guardiamo quelli passati con sospetto?

Il monumento è un tema molto più centrale di quanto si possa supporre, perché solidifica sì la memoria ma la irrigidisce in un’immagine troppo precisa e ci vincola a essa. È un elemento che Keith Lowe identifica fin dal titolo del suo saggio, estremamente equilibrato, dedicato monumenti e memoriali dedicati alla Seconda guerra mondiale: Prigionieri della storia (Utet, pagine 336, euro 24,00). «I monumenti riflettono i valori che ogni società, ingannandosi, considera eterni, e quindi li incide nella pietra e li issa su un piedistallo – scrive Lowe –. Ma mentre il mondo è in continua evoluzione, i monumenti (e i valori che rappresentano) restano fermi nel tempo».

Lowe, studioso britannico del secondo conflitto mondiale, ha selezionato venticinque luoghi in tutto il mondo che raccontano fatti e storie della guerra, caratterizzati in modo diverso e dalle genesi piuttosto differenziate. Si va dal gigantismo del Mamaev Kurgan, il parco di sculture costruito dall’Unione Sovietica negli anni ’60 per celebrare la battaglia di Stalingrado, ad Auschwitz, dalla tomba di Mussolini a Predappio all’assenza che caratterizza i luoghi hitleriani a Berlino, dal memoriale delle stragi giapponesi a Nanchino fino a Hiroshima e la cattedrale di Coventry.

Questi luoghi raccontano storie di “eroi”, di “vittime”, di “mostri”, di “apocalissi” o di “rinascite. Lowe però osserva come «tutti, nessuno escluso, sono controversi. Nessuno di questi monumenti parla davvero del passato: sono al contrario tutti espressione di una storia che è ancora viva e che, ci piaccia o no, continua a governare le nostre vite». Quello che appare evidente è che il monumento schiaccia la storia, che è sempre più complessa e ambigua ri- spetto al racconto dei fatti.

Il Bomber Command Memorial, a Londra, dedicato ai caduti della Raf, è stato realizzato solo nel 2012. Gigantesco, osserva Lowe, è comprensibile solo nell’ottica del Regno Unito del XXI secolo. I bombardieri britannici furono i principali responsabili delle distruzioni di massa delle città tedesche, in cui perirono oltre 635mila civili. Verso la fine della guerra l’opinione pubblica scoprì quanto accadeva e i bombardieri divennero una vergogna nazionale, sparendo dai radar delle celebrazioni postbelliche. Tra gli anni ’90 e 2000 il tema è sbarcato nelle serie tv e al cinema, consentendo ai cittadini britannici di scendere a patti con la propria storia e rendendo possibile realizzare il memoriale “mancante” per i 55mila soldati morti. Il risultato, osserva Lowe, non fu un luogo di riconciliazione ma impregnato di ideologia conservatrice: «Come molti dei memoriali recenti disseminati nella città, non ha niente di moderno o contemporaneo: è un monumento alla nostalgia», quella di un’epoca in cui la Gran Bretagna era una grande potenza coloniale.

Il Marine Corps War Memorial ad Arlington, Virginia

Il Marine Corps War Memorial ad Arlington, Virginia - Epa/Jim Lo Scalzo

Negli Stati Uniti si può apprezzare in pieno la “mitologia dell’eroismo”. «A volte per gli americani gli eroi di guerra non sono semplici essere umani ma figure leggendarie, in alcuni casi addirittura dei santi». È qualcosa di incomprensibile per l’Europa, che «preferisce omaggiare le vittime. I monumenti americani sono trionfanti; quelli europei sono malinconici». Il Marine Corps Memorial di Arlington immortala nel bronzo la celebre foto della conquista di Iwo Jima, in Giappone: l’immagine (insieme al fungo atomico) della vendetta/vittoria degli Stati Uniti sul Giappone che li aveva attaccati a tradimento a Pearl Harbor. I soldati issano la bandiera a stelle e strisce, l’oggetto-feticcio della nazione americana. «Nell’Europa postbellica un monumento che glorifichi il gesto di piantare la propria bandiera in territorio straniero sarebbe impensabile », scrive Lowe. Ma poiché la bandiera per gli americani è simbolo di giustizia e libertà, piantarla sul suolo altrui «non è un gesto di dominio, ma di liberazione».

Anche i monumenti alle vittime non sono immuni da ambiguità. «Quasi tutti sono stati creati per ottime ragioni: la sofferenza deve essere riconosciuta». Eppure «se è vero che grazie a loro possiamo prendere atto di un passato doloroso e superarlo, dall’altro rischiamo di sentirci autorizzati nella sofferenza a rifiutare ogni responsabilità e cercare a tutti i costi un colpevole». Il rischio è una parzialità che esclude altri gruppi che hanno sofferto (è il caso del Monumento nazionale di Amsterdam che ignora gli ebrei), impedisce processi di riconciliazione (la Statua della Pace a Seul, in realtà carica di rabbia, davanti all’ambasciata giapponese) o si vittimizza ideologicamente (il Monumento per le vittime dell’occupazione tedesca a Budapest voluto da Orbán e che “dimentica” il fascismo magiaro).

Lowe osserva come persino la terrazza dello Yad Vashem, un luogo per molti versi straordinario che proietta il dolore della Shoah nel sole della terra dei padri, inquadra la porzione di terra dove si trovava il villaggio arabo palestinese di Deir Yassin, i cui abitanti nel 1948 furono uccisi e deportati da forze paramilitari sioniste per farsi strada verso Gerusalemme. Il problema del monumento non può essere neppure risolto evitando la retorica: il celebre Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa a Berlino, di Peter Eisenman, è del tutto privo di didascalie e immagini e punta a creare una esperienza ambientale di tipo simbolico. Eppure, secondo Lowe, nella sua neutralità rischia di essere incomprensibile se non fuorviante.

il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa a Berlino, di Peter Eisenman, composto da 2.711 stele

il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa a Berlino, di Peter Eisenman, composto da 2.711 stele - WikiCommons

La carrellata si conclude con un monumento non ancora inaugurato a causa del Covid. Si tratta dei “vettori” di Daniel Libeskind disposti lungo la Liberation Route Europe, un percorso che ricuce il continente da Londra a Berlino toccando i luoghi della guerra e della sofferenza. Secondo Lowe è l’esempio di un monumento che opera in un’ottica di comunità ritrovata, non semplifica in martiri e carnefici ma accetta la complessità della storia.

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