sabato 31 ottobre 2020
Nell’epoca delle crociate, Dante attraverso le sue fonti filosofiche, tra cui quella greco–araba, ci offre un ideale spendibile nella nostra modernità
Una miniatura medievale del canto X del Paradiso

Una miniatura medievale del canto X del Paradiso

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L’omicidio del professore francese Samuel Paty, compiuto per mano del diciottenne, rifugiato ceceno, Abdullakh Anzorov e i successivi fatti di sangue avvenuti a Nizza ci inducono a riflessioni non procrastinabili sull’incontro e/o scontro tra la cultura occidentale, sia atea che cristiana, e il mondo culturale islamico.

È stata pronunciata la parola oscurantismo che, dall’illuminismo in poi di solito si accompagna alla parola medioevo. Ebbene la prospettiva ideale, filosofica e teologica di Dante dimostra esattamente il contrario, poiché, nell’epoca segnata dalle crociate, il Poeta archetipo dell’umanesimo cristiano, proprio attraverso lo studio delle sue fonti filosofiche, tra cui quella greco-araba, ci offre il modello del laico cristiano, assolutamente proponibile nella nostra modernità (cfr. Francesco D’Agostino, Giuseppe Dalla Torre, Carlo Cardia, Laicità cristiana, San Paolo 2007).

Si tratta di un percorso che ha inizio con la morte di Beatrice, quando Dante comincia a costruire il suo habitus filosofico e teologico «ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti» (Convivio, II, XII, 7) e termina nel cenacolo di Ravenna, quando Dante è il maestro di uno status intellettuale ben definito e fortemente caratterizzato dalle sue esperienze di vita e dal suo pensiero politico.

Si noti che, fin dall’inizio, filosofia e teologia vanno in parallelo e diversi riscontri testuali dimostrano che sarà così fino all’ultima frase scritta o all’ultimo discorso pronunciato. È una questione di non poca importanza, che riguarda il pensiero e l’azione dell’intellettuale cristiano laico nei suoi rapporti con l’autorità dell’ortodossia dominante e Dante trova o, quanto meno, propone la soluzione, anche se questa gli costa l’esilio e una vita di sofferenze.

Quello che oggi chiameremmo “il confronto di idee” viene percepito da Dante attraverso il metodo del filosofo arabo Averroè (conosciuto probabilmente nelle versioni latine di Michele Scoto), che stabilisce i diritti e i confini dell’intelletto umano all’interno della filosofia e affida alla teologia solo il compito di interpretare il Corano.

Due brani fondamentali della Commedia ci permettono di definire cosa significhi per Dante l’incontro-scontro tra l’islam e il cristianesimo: l’incontro con Maometto (Inferno, XXVIII, 22-63) e quello con Sigieri di Brabante (Paradiso, X, 133-138), una prospettiva che vede sullo sfondo la missione in Oriente di san Francesco («E poi che, per la sete di martiro, / ne la presenza del Soldan superba / predicò Cristo e li altri che seguiro», Paradiso, XI, 100-102).

Maometto si trova nella nona fossa di Malebolge, tra i «seminator di scandalo e di scisma». Particolarmente cruda e realistica è la descrizione dei dannati, perché con la sua predicazione, come Dolcino Tornielli, a cui Maometto apertamente si riferisce, (v.55), il profeta dell’islam aveva creato una frattura profonda e cruenta nella società e un ostacolo grave al compimento dell’unità religiosa di tutti gli uomini. Per Dante la colpa di Maometto è storica, non teologica, altrimenti si troverebbe tra gli Eretici del sesto cerchio.

Al polo opposto, nel cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti si trova Sigieri di Brabante, il più importante pensatore della corrente averroista del XII secolo, avversato sia da Tommaso d’Aquino (De unitate intellectu contra averroistas 1269) sia da Bonaventura da Bagnoregio (Collationes in Hexaemeron 1273) sia da papa Giovanni XXI (Pietro Ispano, Paradiso, XII, 134), che, dopo l’inchiesta del vescovo di Parigi, Stefano Tempier, sull’aristotelismo e averroismo, ne aveva ordinato la condanna (7 marzo 1277), con il conseguente allontanamento di Sigieri dall’università, dove aveva sillogizzato “invidiosi veri”.

Tutta l’architettura del cielo del Sole è in aperto contrasto con le realtà sapienziali terrene, e filosofiche e teologiche: i due Magistri che tessono specularmente l’elogio di san Francesco, canto XI, e di san Domenico, canto XII, nella loro vita terrena avevano rappresentato due indirizzi speculativi diversi, nella loro genesi e nel loro orientamento. Inoltre se nella prima schiera di spiriti sapienti Sigieri di Brabante è al fianco di Tommaso, nella seconda Gioacchino da Fiore si trova vicino a Bonaventura da Bagnoregio che lo aveva combattuto come un falso profeta.

Certo il primo messaggio che cogliamo è quello del riconoscimento di una più alta verità che, in varia misura, si rivela a quanti con animo puro la ricercano, anche a un laico cristiano come Sigieri, verso il quale Dante avvertiva numerose assonanze con se stesso. Ma oltre a questo c’è anche il suggerimento di un metodo di lavoro che si potrebbe definire sincretismo, di uno status intellettuale e morale, definibile come profetismo, di una militanza all’interno della Chiesa che, pur difendendo la splendida ortodossia di Tommaso d’Aquino, si apre alle mille strade e alle mille ricerche che conducono a Dio, anche a quelle in cui Dio si chiama Allah e questa riteniamo che sia la laicità cristiana.

Non è difficile indicare nella nostra modernità tre personalità, tre esempi estremamente convincenti: Giorgio La Pira, Adriano Olivetti, Aldo Moro, perfettamente “organici” alla Chiesa del Concilio Vaticano II e, nello stesso tempo, fieri della ratio umana e delle sue possibilità di riscatto. Nel momento storico che stiamo vivendo diventa quasi necessario accostarci e bere a queste fonti.

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