Riutilizzare, riciclare, rimodulare, ricostruire e perché no, riscattare. Una sequenza di “ripartenze” che racchiude una sfida: la capacità della città di riformare se stessa. Senza consumare altra terra. Senza doversi allargare. Perché la rinascita di una città, che sia Milano o qualunque altra, può partire da dentro, non andando fuori. È questa la prospettiva degli studenti di architettura del Politecnico di Milano nel ridare vita a pezzi della città a partire dalla mappatura del degrado: luoghi abbandonati, strutture inutilizzate, spazi incolti di proprietà pubblica e privata, di diversa consistenza e tipologia, che potrebbero avere ben altra rappresentazione urbana, culturale e sociale. Ed ecco
Nuovi Paesaggi Urbani, la mostra ospitata nello spazio Guido Nardi della Scuola di architettura e società del Politecnico, in via Ampere, che fa parte del progetto didattico
Ri-Formare Milano, realizzato in collaborazione con l’assessorato all’Urbanistica, Edilizia Privata e Agricoltura del comune. L’esposizione (si può visitare fino al 28 gennaio) presenta i migliori progetti (una cinquantina) degli studenti, selezionati dai docenti e realizzati all’interno dei corsi e dei laboratori, e ventotto tesi di laurea magistrale sviluppate negli ultimi due anni accademici. Da quando è iniziato il progetto, tre anni fa, sono oltre 3mila i ragazzi direttamente coinvolti nell’immaginare nuovi spazi urbani. Progetti, plastici, disegni e fotografie (ci sono anche sei scatti realizzati dal fotografo italo-finlandese Giovanni Hänninen). «Sono lavori finalizzati a delineare scenari, spesso alternativi, di riutilizzo funzionale, di riconversione anche per usi temporanei, di sostituzione e innesto architettonico, di adeguamento tecnologico, coinvolgendo il ridisegno degli spazi pubblici della città – spiega la professoressa Corinna Morandi, docente di urbanistica, che insieme a Ilaria Valente coordina il progetto –. Le proposte presentate dimostrano ancora una volta la centralità della questione del progetto sul costruito, che lavora in modo interdisciplinare, cercando di innescare, attraverso proposte fisico-spaziali, pratiche e processi migliorativi delle criticità rilevate, coinvolgendo, anche attraverso interventi puntuali, contesti urbani più ampi. Costruire sul costruito, insomma. Nella consapevolezza che non si può più consumare altro suolo se abbiamo pezzi di città da riutilizzare. È la capacità della città di riformare se stessa, di rinascere dalle macerie, di superare le marginalità intervenendo sul degrado che deprime e condiziona una determinata area o un semplice tassello». Nelle tesi magistrali si sono affrontati i temi della dismissione di alcune caserme o di grandi attrezzature in rovina, si propongono nuove configurazioni del margine tra urbano e rurale, si suggeriscono nuove forme dello spazio pubblico per l’abitare contemporaneo e una nuova via per la definizione dell’architettura della città. Così l’area la caserma Montello trainerebbe nuove idee da piazzale Accursio a tutto il Sempione, fra housing sociale, giardini con parcheggi interrati e perché no, un meraviglioso
boulevard. Gli ex uffici della Banca nazionale del lavoro potrebbero diventare residenziali, ma con una biblioteca pubblica e spazi di co-working. In zona Porta Romana, si potrebbe dare una continuità culturale e sociale dal teatro Franco Parenti alla piscina Caimi. Mentre l’area del ex macello di Porta Vittoria, salvando e valorizzando le palazzine Liberty e gli edifici storici, potrebbe ospitare un’azienda agricola e ortofrutticola in città. Per non parlare dei cinema dismessi, come il Maestoso che si affaccia su piazzale Lodi: in questo caso si presentano diversi progetti che lo ricollocano in ambito culturale, come la realizzazione di un nuovo teatro, di un auditorium musicale o di una accademia della moda. «Idee vere, di progetti possibili», evidenzia Morandi.A dare una visione reale di come sono alcune aree oggetto di studio ci pensano cinque suggestivi documentari prodotti dal Centro sperimentale di cinematografia (diretto da Maurizio Nichetti) e presentati con successo lo scorso autunno al Milano Film Festival. Le telecamere sono entrate nelle scuderie De Montel, nell’ex fabbrica Borletti, in tre cascine (Cotica, Torchiera e Sella Nuova), allo scalo di San Cristoforo con lo scheletro dell’opera pensata da Aldo Rossi e poi fra gli abitanti di via Catullo. Qui, per esempio, si è sviluppato un interessante progetto di accompagnamento sociale, coordinato dal professore Gabriele Pasqui, direttore del dipartimento di Architettura e studi urbani («C’è la responsabilità sociale dell’università, con un contributo di prospettive concrete e pianificazioni sostenibili nella città», evidenzia). È stato organizzato un Festival che ha animato le corti, con la realizzazione di spettacoli e iniziative. Un modo per far parlare diversi mondi che si incontrano e stimolare una integrazione possibile fra vecchi abitanti e nuovi immigrati. «Cosa vuol dire Catullo? Non lo so, questa strada si chiama così», dice con il sorriso una signora di origini sudamericane che vive lì e fa la domestica.
Odi et amo, di una via che cerca una sua nuova identità. E riscatto. A partire da se stessa.