giovedì 29 maggio 2014
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Più del Cagliari che passa di mano - rilevato la notte scorsa a Miami da un fondo americano ancora di fumosa composizione - la notizia clamorosa è che c’è ancora qualcuno interessato ad acquistare il nostro calcio malato, pieno di debiti e di storture. Questione di fascino? Sarebbe bello, ma non è certo quella la molla che spinge sempre di più gli investitori stranieri a mettere il naso e ad investire sul pallone italico. Sfilandolo ai padroni nostrani, tutt’altro che dispiaciuti di dover passare la mano. E il «che Dio li benedica» con cui Massimo Cellino ha salutato la conclusione della trattativa che dopo 22 anni lo priva del suo “giocattolo”, dice tutto e anche di più.Nessuno, per fortuna, parla più con ribrezzo di invasione estera. Storcendo il naso, come accadde all’inizio, di fronte alla prospettiva della perdita di “italianità” dei nostri club. È un calcio sempre più senza frontiere quello che ci aspetta. E non solo per la debordanza dei giocatori stranieri, così massiccia da averli portati quest’anno al sorpasso in Serie A col 55% delle presenze. Ma anche per l’acquisizione dei club. Zero passione, spesso nessuna competenza specifica nel settore: lo shopping straniero è semplicemente un investimento, un business che tiene conto della situazione economica generale complice la caduta di competitività dei maggiori club. L’acquisizione del Cagliari segue di poco quella del Bari, anche qui dissociato dopo 37 anni ininterrotti di regno dalla famiglia Matarrese: il gruppo che sta dietro all’ex arbitro Paparesta che lo ha rilevato, ha investitori indiani, russi e probabilmente irlandesi. Anche nelle serie minori, al Monza è entrato l’anno scorso l’imprenditore anglo-brasiliano Armstrong Emery, mentre al Venezia dal 2011 c’è il russo Korablin.Ma mentre il Milan cerca da tempo partner societari in Oriente, possibilmente solo per quote di minoranza, diverso è stato il discorso che ha portato alla cessione di Roma e Inter. Da Di Benedetto a Pallotta, il gruppo statunitense proprietario della Roma dopo due anni di assestamento con discreti investimenti, ma anche con l’abile strategia di mercato di Sabatini, ha sfiorato lo scudetto e si riaffaccia ora alla Champions. Chiuso un ricco accordo con la Nike, arricchito con la Volkswagen il bouquet degli sponsor, il lancio del marchio Roma sul mercato Usa è stato varato col “totem” Totti in copertina.Discorso simile all’Inter, con l’indonesiano Thohir interessato al l’espansione nel mercato del sud-est asiatico: rinnovo per dieci anni con la Nike, apertura di Inter store anche in Cina. Così, mentre Moratti non poteva più ripianare il buco di bilancio, Thohir ha investito (poco) accollandosi però le (tante) esposizioni debitorie con le banche. Non senza problemi, molti dei quali ancora irrisolti.Paradossale semmai è che esista un fenomeno inverso sempre più frequente: l’acquisizione cioè di club stranieri da parte di dirigenti italiani. A fare da apripista è stato Pozzo. Dopo avere realizzato affari ingente con l’acquisto di talenti, valorizzati e poi venduti a peso d’oro, il patron dell’Udinese ha acquisito due club: il Watford (Serie B inglese) e il Granada che è stato promosso nella Liga spagnola: tra i tre club c’è un interscambio fruttifero di giocatori e tecnici. L’esempio è stato seguito da Cellino che prima di cedere il Cagliari ha acquistato il Leeds dopo molti intoppi e polemiche: dal 6 maggio ha preso il 75% del club ora in Serie B inglese con l’obiettivo di rilanciarlo. Insomma diversificare fa bene agli investimenti nel calcio e l’interesse degli stranieri si rafforzerà quando sarà meno complicato costruire nuovi stadi di proprietà. Che resta la prima, vera (e forse unica) ragione di interesse da parte degli stranieri a casa nostra.
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