mercoledì 16 luglio 2014
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Quello della dispersione scolastica è uno dei problemi più gravi del sistema di istruzione in Italia. I giovani che lasciano la scuola prima di ottenere il diploma di maturità da noi sono il 18,8 % del totale. Una cifra molto alta, che l’Europa ci chiede di ridurre drasticamente, per arrivare, entro il 2020, a contenere la dispersione sotto il 10%. È un obiettievo senz’altro ambizioso ma non impossibile da raggiungere, se solo si diffondessero e si mettessero maggiormente in campo quelle buone pratiche che già esistono e in molti casi si rivelano efficaci. Lo mostra bene Francesco Dell’Oro, per molti anni responsabile del Servizio orientamento scolastico del Comune di Milano. Il professor Dell’Oro è assai conosciuto nel capoluogo lombardo e nel suo hinterland, dove viene di frequente richiesto dalle scuole per interventi di consulenza e formzione rivolti ai docenti, agli studenti e alle loro famiglie. Dell’Oro, che aveva già scritto nel 2012 un libro intitolato Cercasi scuola disperatamente  (Urra), manda ora in libreria un altro volume dal titolo  La scuola di Lucignolo (Urra, pagine 224, euro 14,00). Sottotitolo: «Le ragioni del disagio scolastico e come aiutare i nostri ragazzi a superarlo». Il «disagio» è dunque per Dell’Oro il concetto-chiave da cui partire per combattere la dispersione. Ed è vero: molto spesso gli adolescenti vivono la scuola con disagio, come un posto, cioè, dove non stanno bene, anzi soffrono. La scuola, con i suoi compiti, le sue interrogazioni, le performace che chiede quotidianamente ai ragazzi, si può presentare come un luogo stressogeno e a volte persino angosciante. Di chi è la colpa? I fattori in gioco sono molteplici. Talora gioca in negativo una certa rigidità dei programmi e dei curricola, a cui male si adatta la diversità individuale. Altre volte ci sono effettivamente insegnanti un po’ strani: come quelli – cito casi riportati da Dell’Oro – che bocciano per la terza volta un ragazzo in terza media senza tenere conto della sua condizione di disabilità cognitiva oppure quella professoressa di Matematica che il primo giorno di scuola avvisa minacciosa che i suoi voti vanno dal 2 al 6 (in barba alla scala decimale prevista dalla legge).  Altre volte ancora, però, la responsabilità grava per gran parte sulle scelte compiute in autonomia dai ragazzi. Perché il profitto negativo o la bocciatura può riguardare anche ragazzi intelligenti, provenienti da contesti familiari sereni, senza particolari problematiche psicologiche o di adattamento sociale. A 14-15 anni si è perfettamente in grado di prendere razionalmente delle decisioni, come quella di non studiare e di non impegnarsi. È inutile nasconderlo. E neppure Dell’Oro lo nasconde, nonostante la sua istintiva simpatia (che motiva con una porzione di autobiografia) verso gli alunni più difficili. Ammette invece che in alcuni casi serve fermezza da parte degli adulti e magari una decisa strigliata.  Dell’Oro – che arricchisce la sua esposizione con un’ampia casistica di situazioni concrete – prova a mettersi dalla parte di Lucignolo, per antonomasia lo studente che non vuole saperne di studiare, e anzi trascina il povero Pinocchio nel paese dei balocchi. È un utile esercizio di immedesimazione che dovrebbe servire a capire le ragioni profonde del rifiuto di alcuni giovani verso la scuola, così da porvi riparo. Su un tema, però, non possiamo essere d’accordo. A un certo punto l’autore manifesta una chiara antipatia per una proposta avanzata qualche anno fa da un ministro dell’Istruzione, quella di istituire un premio al migliore studente tra quelli che ogni anno conseguono la maturità in un singolo istituto: oltre al riconoscimento morale, una riduzione delle tasse universitarie, dei viaggi in treno e altri piccoli benefit di questo tipo. La proposta non era sbagliata: questo (o altri simili) sarebbe un modo per motivare i ragazzi e per mostrare che l’impegno, anche a scuola, può avere delle concrete ricadute positive. L’incentivo al merito non è in conflitto con l’attenzione ai ragazzi in difficoltà.
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