lunedì 10 dicembre 2012
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Di personaggi che non conoscono il dono delle lacrime è piena la letteratura di oggi. (…) Diverse ragioni sono all’origine di questa aridità sentimentale. Una ragione potrebbe essere ravvisata nel passaggio (mi pare adombrato ne Il rinoceronte di Ionesco) da un modello di uomo a un altro modello, e precisamente da quello che è stato definito psychological man all'homo sociologicus. L’«uomo psicologico», le cui ascendenze vanno rintracciate nella cultura romantica e, prima ancora, settecentesca, si caratterizzava nella sfera dei sentimenti. L’homo sociologicus si caratterizza invece nella sfera dei rapporti sociali e quindi dei ruoli che ciascuno si trova a esercitare nella organizzazione della società. Per lui esistono ruoli e funzioni. Esistono i problemi. Anche il dolore diventa un problema di ordine generale da affrontare nel modo più razionale e con gli strumenti della pura funzionalità. E quando prevale l’astrattezza delle formulazioni teoriche, si comprende come possa indebolirsi la pietà. C’è un passaggio significativo ne Il malinteso di Camus. A proposito dei clienti da rapinare e da uccidere, la padrona della locanda dice alla figlia: «Io so per esperienza che val meglio non guardarli. È più facile uccidere chi non si conosce». Non è del resto senza ragione che nell’antichità lo schiavo venisse chiamato aprósopos: «senza volto», e che nella letteratura d’oggi, là dove è più assente la pietà, i volti siano alterati o addirittura cancellati. Ancora oggi – e la letteratura ce lo ricorda – l’ideologia frappone uno schermo tra la sofferenza e la pietà. Le lacrime devono essere trattenute quando a comandare non è il cuore, ma la ragione. Esemplare, sotto questo aspetto, è un testo di Brecht intitolato La linea di condotta. Inviato dal partito rivoluzionario, un giovane agitatore politico arriva in una comunità cinese che vive sotto l’oppressione. Il giovane cede ai suoi primi impulsi di pietà e cerca di alleviare le condizioni dei poveri battellieri del riso, ma così facendo mette in pericolo la riuscita dell’azione rivoluzionaria. Nuovi inviati del partito gli faranno capire che, se lui vuole veramente liberare i suoi simili, deve rinunciare a consolarli con una pietà inutile: il suo compito è invece quello di esasperare i loro risentimenti per spingerli alla rivolta,  perché soltanto questa potrà procurare condizioni di vita più umane. L’agitatore – è la conclusione di tutta la vicenda – comprende il suo errore e accetta di essere giustiziato per il bene del partito.
Per un rivoluzionario comunista vi è una sola virtù: essere comunista, e un solo peccato mortale: ubbidire alla propria coscienza tentando di fare ciò che è giusto ma che giusto non può essere quando non è dettato dalla volontà del partito. In questa prospettiva non è ammessa una coscienza individuale. Chi è al servizio del partito è soltanto «un foglio bianco sul quale la rivoluzione scrive i propri ordini». Brecht si rendeva però conto che questa etica della violenza liberatrice lasciava una grande ferita nel modo comune di sentire i rapporti tra gli uomini (…) Noi peraltro non possiamo ignorare quanta parte abbia avuto la lettura ideologica della realtà. L’ideologia, sia essa politica o religiosa (sotto quest’ultimo profilo meriterebbe una particolare attenzione la figura di padre Paneloux ne La peste, è sempre una riduzione dello slancio della pietà. Può succedere perfino che predichi l’amore, ma senza concedere al cuore la libertà di amare. C’è un’altra ragione che spiega l’impossibilità delle lacrime. Anche in questo caso si può parlare di ideologia, ma a patto di osservare subito che si tratta di un modo di sentire non tanto formulato concettualmente quanto vissuto e patito dentro la trama dell’esistenza quotidiana. Quando la vita appare segnata da un nichilismo radicale, è ancora possibile il pianto? È come se una ventata fredda e sferzante raggelasse i volti e chiudesse gli occhi a ogni espressione di pietà. Non è possibile piangere sul destino degli altri quando si è convinti che l’esistenza è una «passione inutile». E non è concesso neppure provare pietà per se stessi. In Verità e menzogna, uno dei libri più disperati degli ultimi decenni, Piovene, attraverso la voce del protagonista, cancella le tradizionali conquiste della religione e dell’illusione: «Questi apostoli feroci e idioti vorrebbero farci credere che la prima cosa per l’uomo sia di poter amare gli altri. Che sciocchezza! La prima cosa, di gran lunga, è imparare ad amare se stessi. Chi riesce ad amarsi è felice, fiducioso e buono; purtroppo non esiste, la sua è una razza estinta. (…) Non può amarsi chi ha conosciuto il vero su se stesso».
La verità su se stessi genera insensibilità e indifferenza. Si entra, in altre parole, in una sorta di glaciazione dei sentimenti. È l’impressione che immediatamente si avverte leggendo le pagine di Bernhard, di Beckett, di Borges, di Céline, di Pessoa, di Cioran e di molti altri autori contemporanei, i cui occhi si ostinano a scrutare il vuoto e il nulla annidati tra le pieghe delle cose e delle passioni. Vi circola un’aria di arida consapevolezza, di scettico disincanto che sembra voler prosciugare ogni vena di tenerezza e di compassione. Altre volte la sofferenza, invece di essere assorbita in una condizione di torpida apatia, si capovolge in un atteggiamento ironico fino a conoscere l’espressione paradossale del riso. Montale è tra gli autori più abili a celare le lacrime dietro lo schermo dell’ironia. Anche Caproni è in grado di dominare il vuoto e l’assenza con una lucidità inflessibile e al tempo stesso giocata sul registro del divertissement per cui il pianto è come congelato in schegge di cristallo e l’uomo si muove con andatura un po’ spettrale entro un paesaggio straniante. Si tratta di un riso clownesco, convulso, meccanico, un modo per prendere le distanze da una realtà altrimenti insopportabile, una delirante forma di difesa contro l’oppressione di un mondo abnorme. È certo che si tratta di un riso senza gioia. Il riso di Jarry, di Ionesco, di Beckett, di Dürrenmatt è l’altra faccia della tragicità. Nel trionfo della comicità (sia chiaro: non quella tradizionale piena di esuberante vitalità, ma quella moderna che riproduce mimeticamente il non senso delle cose) c’è come il grado ultimo della disperazione. Oltre quella soglia non resta che il silenzio di chi ha perso anche la capacità di soffrire. (…)  È il problema che Camus aveva avvertito ai tempi de La peste: «Se si può essere un santo senza Dio, è il solo problema concreto che io oggi conosca». Sono parole che con una leggera parafrasi, potrebbero suonare così: si può provare una vera pietà senza credere in Dio?
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