lunedì 23 aprile 2012
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Finché si tratta di cinema, il tragitto è abbastanza conosciuto. Ci si fa scarrozzare da Robert De Niro attraverso la New York livida e notturna di Taxi Driver (l’anno è il 1976, alla regia c’è Martin Scorsese) per poi chiedere uno strappo ad Alberto Sordi del Tassinaro (il primo episodio, tutto ambientato a Roma, è dell’83, ma quattro anni dopo arriva la trasferta di Un tassinaro a New York> e il trasbordo diventa possibile). Dopo di che, se si è abbastanza coraggiosi, ci si può imbarcare sull’adrenalinico Taxxi ideato da Luc Besson (quattro titoli, non solo parigini, nelle sale tra il 1998 e il 2007). Se c’è tempo, si allunga la strada con la serie tv Taxi, in onda negli anni 1978-83, del cui cast faceva parte anche Danny DeVito. O con la niente affatto memorabile La tassinara, ancora un prodotto televisivo – italiano, questa volta – interpretato da Stefania Sandrelli e datato 2004, stesso anno di un’altra variante al femminile, l’altrettanto dimenticabile Taxi con Queen Latifah. Ma sempre nel 2004, per fortuna, il cerchio si chiude con un altro capolavoro, Collateral di Michale Mann: siamo a Los Angeles, Jamie Foxx è il guidatore coraggioso, Tom Cruise il passeggero malvagio e la resa dei conti sarà imprevedibile, un po’ come accade nel più recente Drive firmato da Nicolas Winding Refn, dove il taxi diventa una specie di arma impropria. E tutto questo senza considerare le innumerevoli volte in cui un personaggio, al cinema, salta su un taxi e pronuncia la battuta fatidica: «Presto, segua quell’auto!».Sì, ma in letteratura? Se i “film-con-taxi” sono abbastanza facili da individuare (ce n’è anche uno, Tassisti di notte di Jim Jarmusch, che nel 1991 costituisce quasi un manifesto), la situazione cambia quando ci si sposta dallo schermo alla pagina. Però anche qui, in effetti, il filone inizia a essere riconoscibile. Merito, o forse colpa, di uno degli stratagemmi prediletti dai giornalisti in trasferta, che amano iniziare i loro racconti con le confidenze raccolte a ritmo di tassametro. Ascoltare la voce dei tassisti è considerato, da sempre, il modo più spiccio per raccontare una città. Niente di strano che ora siano i tassisti stessi a prendere la parola, magari per dare il loro ritratto di Milano. In queste settimane, infatti, sono apparsi sia In taxi, seguendo il filo del percorso (Arterigere, pagine 196, euro 16,00), in cui Enzo Tarsia ha raccolto un florilegio dei pensieri che i suoi clienti, spesso eccellenti, hanno annotato sull’apposito taccuino lasciato a loro disposizione, sia Il cane che mi guardava e altri racconti del taxista di Giovanni Ubezio (il Saggiatore, pagine 192, euro 13,00). Progetto più ambizioso, quest’ultimo, per il quale si sono fatti i nomi di Robert Walser e Raymond Carver. Ubezio osserva, ascolta, trascrive il mondo dal suo osservatorio mobile, confezionando bozzetti di lancinante precisione, come quello delle due sciure che decidono di mettere alla prova la domestica filippina spedendola a sbrigare una commissione inventata sul momento. Ma anche le rapide carrellate su una Milano solitaria, non troppo distratta e in larga misura inedita denotano un talento spontaneo e sorprendente.Incuriosisce, tra l’altro, il fatto che alcuni degli aneddoti riportati da Ubezio si ritrovino, molto simili, in altri romanzi di ispirazione tassistica. Quello della donna male in arnese che finge di lasciare in pegno la propria borsetta, cercando invece di dileguarsi senza pagare, compariva già, per esempio, in Taxi della tedesca Karen Duve, apparso nel 2008 e tradotto due anni dopo da Riccardo Cravero per Neri Pozza. La protagonista è Alexandra, bella e confusa ventenne che si ritrova alla guida della vettura 244 per le strade di un’Amburgo ingrigita e promiscua. Sono gli anni Ottanta, ogni ideale sembra consumato e anche la caduta del Muro di Berlino è un argomento al quale si dedica, tutt’al più, qualche chiacchiera con i colleghi al parcheggio.Niente a che vedere con il capo d’opera del genere, e cioè Strade di notte di Gajto Gazdanov, un classico degli anni Quaranta riscoperto lo scorso anno da Zandondai (traduzione di Claudio Zonghetti). Figura di spicco della letteratura russa dell’emigrazione, Gazdanov lavorò veramente come tassista a Parigi. Un’esperienza comune a molti suoi connazionali riparati in Occidente dopo la Rivoluzione, ma che nel suo caso si trasforma in occasione per ripensare profondamente la propria poetica: «non avrei saputo molto di ciò che so – e ne basterebbe la metà per indurire per sempre diversi cuori – se non avessi fatto il tassista», ammette. Non è escluso, tra l’altro, che Strade di notte rappresenti uno dei modelli di Nietzsche e il demone meridiano, bizzarro conte philosophique (inedito in Italia) attribuito al fantasmagorico pensatore Jean-Baptiste Botul, qui immaginato nei panni di un tassista intento a discolparsi di un’aggressione odiosa nella Parigi del 1937.Più che nel pastiche letterario, tuttavia, è nella documentazione sociale che il “libro-con-taxi” dà il meglio di sé. Nel 2007, quando ancora le primavere arabe erano di là da venire, Khaled Al Kamissi aveva raccolto in Taxi umori e malumori dei conducenti di piazza del Cairo, rivelando più di un segreto della capitale egiziana, dove il traffico si bloccava ogni volta che Mubarak usciva a passeggiare fuori dal suo palazzo (il reportage è stato pubblicato da un piccolo editore abruzzese, Il Sirente, nella versione di Ernesto Pagano). Del resto, Taxi to the Dark Side è il titolo del film di Alex Gibney vincitore – proprio nel 2007 – dell’Oscar come miglior documentario. Una ricostruzione asciutta e spietata del drammatico caso di Dilawar, il tassista pashtun morto in seguito alle torture dei militari Usa nel centro di detenzione di Bagram, in Afghanistan.
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