sabato 31 marzo 2018
Parla lo scrittore scozzese, autore che riflette sulle speranze e l'identità di un popolo. «Molti si accontentano della devolution ma dopo la Brexit aumenta il bisogno di libertà da Londra».
James Robertson: «La Scozia ormai è independente. Anche senza indipendenza»
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Sessant’anni di storia della Scozia raccontati attraverso tre generazioni, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri. L’appassionato ritratto di un popolo in una fase storica cruciale che va dal declino del carbone, dell’acciaio e dell’industria navale alla scoperta del petrolio nel mare del Nord e all’ascesa del nazionalismo. James Robertson, uno dei più grandi scrittori scozzesi contemporanei, segue il solco tracciato dai suoi illustri connazionali – Robert Burns, Alastair Gray e Irvine Welsh – dando voce alla gente comune nel suo capolavoro, il ponderoso romanzo Solo la terra resiste (edizioni Paginauno, traduzione di Sabrina Campolongo, Carmine Mezzacappa e Clara Pezzuto, pagine 800, euro 18,50). Un viaggio nel cuore di un paese dalle grandi speranze e dai sogni infranti ma anche un’opera profondamente politica, che prende avvio dall’esperienza personale dell’autore: «Fin da quando ho iniziato a lavorarci, circa una decina d’anni fa, avevo ben chiara l’intenzione di scrivere un romanzo “politico”, che raccontasse in un’opera di finzione i cambiamenti sociali, industriali e culturali che avevano interessato il mio paese a partire dal Secondo dopoguerra».

Autore di una ventina di libri, da circa tre decenni Robertson affianca a una brillante carriera di scrittore un impegno per la diffusione della cultura del suo paese. Nel 2002 ha fondato insieme al poeta Matthew Fitt la casa editrice Itchy Coo, che ha tradotto per la prima volta in lingua scozzese classici per bambini e ragazzi come Harry Potter e Winnie-the-Pooh, integrando la didattica nelle scuole primarie. Alcuni anni fa è stato il primo scrittore residente ospitato all’interno del parlamento scozzese. Il suo Solo la terra resiste , scritto interamente in inglese, con una molteplicità di stili e passando dalla prima alla terza persona, si svolge sullo sfondo «delle desolate lande della Scozia de-industrializzata, quella Scozia così reale che sfugge all’immaginazione ». Il libro inizia raccontando la storia di Michael Pendreich, intento ad allestire una retrospettiva dedicata al padre, il famoso fotografo Angus Pendreich, morto qualche anno prima. Mentre la narrazione procede, attraverso le foto di Angus ci imbattiamo nell’eccentrico insegnante belga che sposa la causa del nazionalismo scozzese, nel vagabondo senza casa che colleziona ciottoli, nel deputato conservatore con una passione segreta, nell’agente dei servizi segreti tradito dai colleghi e in molti altri personaggi, anche femminili, che costruiscono una coralità dal respiro dell’epopea.

Leggendo il suo libro si comprende che negli ultimi decenni, in Scozia, è progressivamente crollato il senso di appartenenza alla cultura britannica. Da cosa è stato sostituito?

«Credo che la Scozia abbia raggiunto l’apice della “ britishness” dopo la Seconda guerra mondiale. All’epoca il senso di appartenenza all’Impero era ancora molto forte, poiché era stata appena vinta la guerra contro il fascismo e nell’immediato dopoguerra il governo laburista creò il nuovo welfare state e il servizio sanitario nazionale. Ma a partire dagli anni ’60 e ’70 questo sentimento ha cominciato a scricchiolare: l’Impero non c’era più, la memoria della guerra era ormai lontana e la gente iniziava a ribellarsi contro le tendenze centralizzatrici dello stato britannico. A poco a poco è riemersa l’identità scozzese, insieme al desiderio di ottenere maggiore democrazia e di avere un potere politico più vicino alla gente. È stato un percorso complesso e tutt’altro che omogeneo, che sotto molti aspetti ha visto una politica basata sul concetto di classe sostituita da una politica incentrata sull’identità. Molti, oltre al rinnovato orgoglio di sentirsi scozzesi, hanno sviluppato anche un forte senso di appartenenza all’Europa».

La crescita del nazionalismo e la questione della devolution rappresentano lo spartiacque principale nella storia recente della Scozia?

«Sicuramente. L’istituzione di un parlamento scozzese e delle assemblee dell’Irlanda del Nord e del Galles nel 1999 sono stati i principali cambiamenti costituzionali della politica del Regno Unito dai tempi del suffragio universale degli anni ’20. Ormai, qualsiasi cosa succeda, è impossibile che il parlamento scozzese venga abolito, e in effetti continuerà a accrescere il suo potere anche se la Scozia non diventerà mai indipendente».

Fino a pochi anni fa il nazionalismo scozzese era considerato un movimento per pochi eletti, quasi kitsch, poi è diventato un fenomeno di massa. Com’è stato possibile?

«A partire dagli anni ’60 cominciò a farsi strada l’idea che una Scozia indipendente non fosse soltanto frutto della fantasia di qualche poeta o di intellettuali con velleità nazionaliste, ma fosse un progetto attuabile anche sul piano economico. Certo, è stata importante la scoperta di grandi giacimenti di petrolio e di gas nel mare del Nord, in acque scozzesi, ma si stava già manifestando lo scontento popolare nei confronti del governo del Regno Unito, la convinzione che Londra non stesse operando nel modo corretto sul piano economico, sociale e politico. Altri piccoli paesi europei come la Norvegia, la Danimarca, la Svezia e l’Irlanda sono diventati i modelli ai quali ispirarsi per portare una nuova era di prosperità e uguaglianza anche in Scozia. Con la creazione del parlamento scozzese nel 1999, gli indipendentisti dello Scottish National Party sono gradualmente cresciuti fino a diventare un fenomeno di massa».

Perché ritiene che sia importante la diffusione della lingua scozzese nelle scuole primarie?

«Secondo un censimento del 2011, la lingua Scots è usata in una certa misura da circa il 35% della popolazione. Esiste da migliaia di anni, ha una vasta produzione letteraria scritta e orale eppure fino a pochi anni fa non era stata ancora riconosciuta ufficialmente come lingua minoritaria, né insegnata nelle nostre scuole. Insieme a molti altri intellettuali, io ho sempre creduto che fosse necessario incoraggiarne l’uso sviluppando progetti specifici. Ovviamente lo scozzese non deve sostituire l’inglese, ma penso che sia utile educare i bambini a leggere, a scrivere e a parlare questa lingua, visto che spesso è quella che i loro genitori usano in casa. Ma soprattutto perché la lingua è un elemento centrale dell’identità di un popolo e lo Scots è parte integrante della cultura scozzese».

La storia raccontata nel suo romanzo si conclude prima del referendum del 2014 che vide la sconfitta degli indipendentisti. La sua posizione nei confronti dell’indipendenza scozzese è cambiata in questi ultimi anni?

«Sono sempre stato favorevole all’indipendenza ma realisticamente credo che la maggior parte degli scozzesi la pensi diversamente. Molti vogliono soltanto un certo livello di devolution e io, da buon democratico, accetto la volontà della maggioranza. In anni recenti mi sono però convinto sempre più che una società democratica, equa e giusta possa svilupparsi soltanto in una Scozia indipendente».

La maggioranza degli scozzesi ha votato contro la Brexit ma la Scozia sarà costretta ad abbandonare l’Europa insieme al resto del Regno Unito. Crede che questo potrà dare un’ulteriore spinta verso l’indipendenza?

«Penso proprio di sì. Le prospettive aperte dalla Brexit sono talmente negative che stanno convincendo l’opinione pubblica scozzese a favore dell’indipendenza. Non esistono precedenti per poter affermare in che modo ciò accadrà, ma credo che alla fine la Brexit sarà decisiva in questo senso».

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