mercoledì 15 febbraio 2017
La nuova prova dello scrittore francese parte da un attentato islamista in una chiesa per allargarsi a una riflessione sulla natura delle religioni e sul bisogno di un aldilà
Lo scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt (Ansa/Isabella Bonotto)

Lo scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt (Ansa/Isabella Bonotto)

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Non c’è niente da fare. Eric-Emmanuel Schmitt ci è ricascato. Lo scrittore francese, uno degli autori transalpini di maggior successo in patria e all’estero, non è proprio capace di stare lontano dai temi del soprannaturale, della spiritualità e dell’indagine religiosa. Un’attenzione veramente singolare per un autore che sa unire grande successo (i suoi libri sono veri e propri casi letterari in Francia, ogni titolo vende centinaia di migliaia di copie) e tematiche religiose, come è il caso del ciclo dell’invisibile (tradotto in Italia da e/o), del suo romanzo più religioso in assoluto, Il Vangelo secondo Pilato (San Paolo), oppure ancora del recente La notte di fuoco (e/o) in cui racconta la sua folgorante conversione religiosa nel deserto del Sahara algerino.

Anche l’ultimo romanzo pubblicato da Schmitt in Francia va in questa linea: L’homme qui voyait à traverse les visages (le edizioni e/o lo pubblicheranno entro l’anno in italiano) prende come spunto un attentato islamista ad una chiesa in Belgio (un richiamo diretto ai fatti di qualche mese fa a Bruxelles) per dilatarsi in una riflessione corale sull’identità di Dio, sulla natura profonda delle religioni, sul bisogno di un aldilà. Con un’annotazione formale che accomuna molti dei romanzi di Schmitt: il colpo di scena finale (un breve cenno: è davvero il narratore l’autore del libro?).

Ma andiamo con ordine. In sintesi, la trama: un giovane stagista di un giornale di Charleroi assiste ad un attentato suicida all’esterno di una chiesa nella cittadina belga (Schmitt da anni ormai risiede nei dintorni di Bruxelles). Quando si risveglia incolume, Augustin Trolliet, questo il nome del protagonista, viene interrogato dagli inquirenti. E qui si entra nel campo del romanzo fantastico: si scopre che Augustin vede delle persone che gli altri esseri umani non vedono (di qui il titolo del romanzo). E da alcuni riscontri (la figura anziana che lui vede accanto all’attentatore, Hocine Badawi) si viene a sapere che queste persone viste dal solo Augustin sono dei morti.

Mentre le indagini proseguono, gli investigatori si trovano spaesati di fronte alle motivazioni religiose (?) di chi si è fatto esplodere al grido «Allah è grande ». E a chi indaga la verità dei fatti spunta l’idea di chiedere al giovane protagonista (che sogna di fare il cronista professionista) di realizzare un’inchiesta giornalistica utile all’indagine: capire se sia davvero Dio che vuole tutta questa violenza. E per saperne di più ad Augustin viene consigliato di intervistare nientemeno che… Eric-Emmanuel Schmitt. Perché proprio il romanziere? «Lo si descrive come uno scrittore ferrato di metafisica e di religioni. Ha la passione di comprendere gli esseri, compresi quelli che non approva e che rifiuta», affermano i detective della polizia belga. Il riferimento è (ad esempio) a La parte dell’altro, il romanzo in cui Schmitt aveva raccontato la vita di Adolf Hitler. E al contempo si era immaginato un’altra esistenza (e ben altre conseguenze per il mondo) per il sanguinario dittatore nazista, nel caso in cui avesse avuto successo nel suo lato artistico.

Dialogando con lo scrittore Schmitt (di cui è fervente lettore), Augustin arriva a decidere l’impossibile: cercare un’intervista a Dio stesso, per farsi un’idea se veramente religioni e violenza sia sorelle, per capire quale legame ci sia tra le tre religioni del Libro, per comprendere in definitiva se credere in un Dio significhi porsi fuori dall’orizzonte della razionalità.

L’intervista del giovane Trolliet con il Grande Occhio (il narratore sceglie questa figura per descrivere la divinità) è un condensato della teologia umanistica di Schmitt: ad esempio, la ragione per cui non è possibile dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio. Un assaggio in questo dialogo tra il giornalista e Dio: «“Perché lei si tiene da parte?”. “Da parte rispetto a cosa?”. “Del mondo”. “Io l’ho fatto. Non mi si può chiedere di coinvolgermi di più”. “E perché si tiene distante da noi uomini?”. “Per lasciarvi liberi. Liberi di credere o di non credere. Liberi di fare il bene o di agire male. Mi sembra che Dio debba nascondersi”». Sono moltissimi poi gli spunti che seguono in questa narrazione. Come il tema della violenza e della sua “radice” religiosa. Chiede Augustin: «Perché tanta violenza nella Bibbia?». «Si capisce male su questo punto – risponde il Grande Occhio –. O piuttosto non mi si capisce più. I tempi sono radicalmente cambiati… Ho sempre concepito la Bibbia come un libro contro la violenza, ora certuni se ne servono per esprimere la loro violenza a nome mio». Non mancano i riferimenti filosofici cui Schmitt ci ha già abituati, lui che aveva iniziato la carriera come docente di filosofia all’università di Chambéry: il richiamo alla scommessa di Blasie Pascal, citato esplicitamente nel libro; il riferimento alla teologia del “ritiro” di Dio dal mondo, sopra accennata, che rimanda al pensiero di Emmanuel Lévinas. Sono poi evidenti i debiti alla teoria del capro espiatorio di René Girard, ben rintracciabile laddove il personaggio di Dio afferma: «Mi compiacevo del cristianesimo. Nel Nuovo Testamento avevo chiaramente esposto a che punto di arbitrio, di ingiustizia, di immoralità poteva portare la violenza. Sulla croce io ho ucciso l’odio. Vedendo morire l’innocente ciascun individuo avrebbe percepito il risultato odioso della propria violenza: immaginavo tutto questo. Gesù agonizzante guarisce il violento della sua propria violenza, incitava il genere umano a cercare soluzioni altrove rispetto alla forza, a costruire un mondo nuovo dove la benevolenza rimpiangerebbe la paura».

C’è spazio anche per le riflessioni di Schmitt sull’islam (sul quale aveva già vergato il delizioso racconto Ibrahim e i fiori del Corano): della religione coranica ricorda l’imperativo «Nessuna costrizione nella religione», riabilita il termine jihad come sforzo personale verso la perfezione, non il suo senso politico-militare. Infine non mancano le stilettate di Schmitt contro i propugnatori di un laicismo che diventa ateismo diffuso, quasi una religione di Stato. Al giudice che propone come soluzione rispetto al pericolo religioni «l’ateismo obbligatorio », Augustin controbatte che questa sarebbe violenza tale e quale lo sono le religioni quando vengono rese obbligatorie: «Dio ci lascia la responsabilità, almeno ci ispira, ci sorprese, ci eleva, ci stupisce. Cosa resta di sacro se non crediamo più in Dio? Io amo molto l’idea che la vita ci supera. Mi piace parecchio l’umiltà».

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