sabato 4 febbraio 2017
Storia, politica, lingua: il pianista presenta a Milano un ciclo di concerti dedicato a Bach, Bartók, Janáček e Schumann: "Autori lontani e sorprendentemente vicini, una lezione per il continente"
Sir András Schiff a Lucerna nel 2015 (Peter Fischli)

Sir András Schiff a Lucerna nel 2015 (Peter Fischli)

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Si direbbe che per András Schiff suonare sia davvero come giocare. Basterebbe il sorriso con cui siede alla tastiera per capire il gusto che prova. Sorriso e gusto che si riflettono nella natura apollinea del suono e del fraseggio. Ma quando vedi un ciclo – portato nelle maggiori sale da concerto di tutto il mondo, e in Italia a Milano per la Società del Quartetto (il prossimo concerto il 14 febbraio, quindi il 9 maggio) – dedicato a “Bach, Bartók, Janáček, Schumann”, capisci che il pianista ungherese (naturalizzato britannico e da anni di casa tra le colline fiorentine), ami anche gli imprevisti che solo i giochi di specchi sanno regalare. “Ho fatto tanti cicli monografici – racconta –. Ho pensato, invece, di cercare una via diversa, per combinazioni di autori. Questi quattro sono lontani, è vero, ma anche sorprendentemente vicini. Ho pensato i programmi come due dialoghi affiancati: tra Bach e Bartók, tra Janáček e Schumann”.

La scelta della prima parte dei programmi del ciclo cade spesso su brani, rari in concerto, dedicati all'infanzia o pensati per l'apprendimento alla tastiera, come gli album di Bartók e le Invenzioni di Bach.

“Bartók ha studiato molto Bach, ed entrambi hanno posto attenzione all’educazione musicale dei bambini. Tanti nel pubblico hanno studiato pianoforte, e quasi tutti sono passati per le Invenzioni di Bach, senza pensare mai che potessero essere grande musica. Una Invenzione è una composizione perfetta in due sole pagine. Bach qui usa anche le scale modali, come fa Bartók, duecento anni dopo, che per i bambini scrive una raccolta di canti popolari. Un patrimonio raffinato creato da gente semplice, e sembra un miracolo che queste canzoni bellissime impieghino le stesse scale modali usate da Bach”.

Che rapporto ha Bach con il mondo della musica popolare?

“Grande, ma in quei tempi la società era molto diversa. Ancora al tempo di Bartok era una rivoluzione: l’aristocrazia e la borghesia non avevano simpatia o interesse per questi “barbari”. Ma Bach usa canzoni popolari, pensiamo all'ultima variazione delle Goldberg, proprio come elabora i corali: che sono musica del popolo! Quando si fa una Passione di Bach in un piccolo centro nella Germania protestante, al momento dei corali il pubblico comincia a cantare. Perché tutti conoscono la melodia. E questa è cultura”.

Ha detto più volte che per lei Bach è il più grande. Perché?

“Per me è fuoriclasse per complessità, forza dell'intelletto e dell’emozione. Ed è anche il più simpatico… Non conosciamo bene Bach come Mozart o Beethoven. Ma con loro si avverte l’inizio di un egocentrismo dell’artista assente in Bach. In lui c’è modestia, sebbene fosse conscio del suo valore. Ma ha scritto come un servo di Dio, per la comunità. Ogni domenica una cantata ad maiorem Dei gloriam, non per la propria immortalità. Invece già per Mozart quest'ultima si avverte importante. In Bach la musica sacra e quella secolare convergono. Si prenda tra le Invenzioni a tre voci quella in fa minore. Modernissima e complessa. Dura due minuti. E in due minuti c’è tutta la profondità della Passione secondo Matteo”.

Quando ha “riscoperto” le Invenzioni?

“Quelle a tre voci le ho studiate con Kurtág. Una esperienza capitale, perché è un grandissimo compositore, e i compositori sono i migliori perché vedono la struttura che sfugge agli interpreti. Questi cercano altre soluzioni, belle e importanti, ma il compositore coglie l’essenziale. Avevo 14 anni, e per me è stata l’apertura di un nuovo mondo. Kurtág poteva lavorare su una sola Invenzione per tre, quattro ore. Senza esaurirla. Perché ogni nota, ogni armonia, ogni voce erano una miniera da esplorare”.

Che rapporto ha con la musica contemporanea?

"Non spesso, ma la suono. Kurtág è un compositore che suono con piacere. E poi Holliger, ad esempio. Ma sono pochi gli autori che mi piacciono davvero. Cerco, sono aperto, aspetto con interesse e pazienza i nuovi giganti".

Arriveranno?

"Speriamo, ma è un tempo difficile per la musica. Come per tutte le arti, ci sono periodi attivi e poi fasi di stanca. Forse mi sbaglio, ma se lei mi chiede quali siano i capolavori della musica dopo la seconda guerra mondiale, ci sono certo, ma non è una lista lunga. Molto meno lunga di quella dei capolavori della prima metà del Novecento…"

Lei ascolta musica che non sia classica?

"Jazz, ad esempio. E musica etnografica. Ma musica pop no, e quando mi capita di ascoltarla non mi piace. Ho come una sorta di intolleranza… Mi disturba il volume, sempre tutto forte. Mancano le nuances. In un pezzo pop manca la dinamica, è sempre tutto pieno, come una sorta di horror vacui. Manca il silenzio".

Le musiche di Janáček e di Bartók nascono in contesti culturali nazionalisti, lo spirito tedesco anima quella di Schumann come ne è un pilastro fondativo quella di Bach. In questo ciclo c'è anche una dimensione “politica”?

“Bartók e Janáček sono uno ungherese e l’altro moravo: ma entrambi erano nati e in parte vissuti sotto Vienna. Tutti parlavano tedesco, e c’era una dominanza della cultura tedesca nella musica. Eppure in loro l'elemento nazionalista è positivo. Oggi invece in Europa a livello politico c'è un nazionalismo gretto. Questo ciclo cerca un dialogo, non una opposizione”.

Lei nel 2011, dopo l’avvento di Orbán, ha deciso di non suonare più in Ungheria. Cosa significa oggi per lei la parola patria?

“La mia patria è l'Europa. E l’Italia è un paradiso. Naturalmente mi manca molto l’Ungheria. L’ho lasciata per la prima volta nel 1979, per crescere musicalmente e umanamente. Dopo 8 anni sono tornato per suonarvi. Ma il 2010 ha coinciso con la morte di mia madre e l’avvento di Orbán, e non ci sono più tornato. Mi disturba profondamente la sua politica. Inoltre in Ungheria oggi si respira un clima di antisemitismo. Che non è ufficiale, ma pervade la società”.

I suoi genitori erano ebrei sopravvissuti alla Shoah.

“La mia era una famiglia di ebrei secolarizzati, dopo l'Olocausto i miei genitori si sono detti “la religione non ci aiuta, proviamo ad assimilarci”. Cosa davvero impossibile... Per me un'identità ebraica è cominciata solo dopo aver lasciato l’Ungheria. Ora in Europa essere ebreo non è un problema, mentre durante la gioventù in Ungheria lo è stato. Ad esempio in classe eravamo due bambini ebrei e tutti gli altri cristiani. Eravamo sempre “fuori”, non è stato facile”.

Janáček è un grande autore nel repertorio abituale di pochi. Pigrizia o c'è un effettivo problema culturale?

“Janáček conosce l’arte di scrivere una musica che parla. La sua musica è basata sulla prosodia della lingua morava. Un'arte che condivide con Bartók. Abbiamo bellissime incisioni di Bartók che suona i suoi lavori. La sua notazione musicale è molto precisa: l’articolazione, la dinamica, il metronomo. Ma quando suona è molto più libero, segue come metro la propria lingua: molto “parlando”, molto rubato...”.

Anche la musica è “figlia” della lingua materna?

“Il linguaggio musicale è universale, ma la lingua materna e le radici sono importanti. Certo, per capire o suonare Bartók o Janáček bene non è necessario parlare ungherese o moravo, ma ogni interprete dovrebbe studiare la natura di queste lingue, dagli accenti fino alla poesia. E questo vale con ogni lingua. Mozart era un compositore cosmopolita. Nella sua musica riconosciamo il tedesco e l’italiano, soprattutto, ma anche il francese. Bach è molto tedesco. Eppure la retorica della sua musica ha spesso una struttura latina”.

Lei quante lingue parla?

"Nessuna… (ride). Sei o sette. Anche il russo. Ai tempi dell’Unione Sovietica era obbligatorio parlare russo. Quando eravamo bambini era una noia, oggi sono felicissimo. La possibilità di leggere un libro in originale è un regalo. Per me è una fortuna essere ungherese, un piccolo paese la cui lingua è parlata e capita da 10 milioni di persone: per me imparare altre lingue è stata una necessità. Ma è anche un paese in cui la musica folklorica è stata tenuta in grande considerazione. Zoltán Kodály disse che ogni bambino deve cantare canzoni popolari, anche se non ha una bella voce. Cantare in coro a scuola è impegnativo ma è profondamente educativo. Nel coro non ci può essere egoismo. È una vera squadra, non come nel calcio, che adoro. Ma lì si combatte, bisogna vincere o si perde. Nell’arte non è, o non deve essere così".

Lei ha fatto parte di giurie di concorsi pianistici?

"Una sola volta, e non lo farò mai più. Detesto i concorsi, sono una cosa terribile. La musica non è uno sport. È quasi impossibile giudicare. È facile definire gli elementi sportivi: la velocità, la forza, la perfezione - perché è vietato sbagliare. Ma tutto questo non è arte. Dare invece un giudizio sul musicista dipende dal gusto personale. E perciò credo che i concorsi siano sbagliati. Abbiamo tanti concorsi privi di valore. E migliaia di vincitori di concorsi che non sono interessanti. E questo il pubblico lo capisce subito".

Da tempo ha affiancato al pianoforte l’attività di direttore d’orchestra. In che modo il lavoro sul podio ha influito sul suo pianismo?

“Quando ho cominciato a dirigere, prima dal pianoforte con i concerti di Bach, poi Mozart e Beethoven, è nata in me una grande curiosità di conoscere da dentro la musica sinfonica e i capolavori con coro. Dopo aver affrontato le Passioni e la Messa in si minore di Bach, quando sono tornato al pianoforte per le Goldberg o il Clavicembalo ben temperato ho capito molto meglio la struttura, l’architettura, l’orizzonte. Perché tutti questi pezzi sono legati. Dirigere mi interessa, ma so perfettamente di non essere un vero direttore. Ma posso lavorare con un’orchestra non è tanto diverso da fare musica da camera, è piuttosto una continuazione. Una prova d’orchestra è come una lezione di musica insieme, a partire dall’ascolto. La differenza con un’orchestra è che ci sono più persone. Ma dal punto di vista dell’elemento psicologico tra un direttore e un insegnante c’è molta somiglianza. Un’insegnante deve essere un buon musicista e buon dottore. Gli allevi sono come pazienti. Ognuno arriva con problemi fisici e psicologici. Noi dobbiamo ascoltarli e aiutarli. Non ho mai studiato direzione, ma ho suonato con molti grandi direttori e anche meno grandi, e ho potuto osservarli attentamente. Vede, ho capito che nessuna orchestra ama i direttori che parlano troppo. E molti di loro invece parlano sempre, continuamente…. Quando ascolto un allievo lo lascio suonare un pezzo da cima e fondo, anche se non mi piace: serve a dargli fiducia. Così con l’orchestra quando provo una sinfonia la prima volta la eseguiamo da capo alla fine, per ascoltare come è la qualità, il suono, la personalità dell'orchestra. E poi possiamo parlare un po’. Tanti direttori cominciano una sinfonia e si fermano alla prima battuta e poi alla seconda. E poi è tutto finito, perché i musicisti sono irritati dal fatto di non avere la possibilità di continuare. È una frustrazione”.

Cosa significa lavorare su un ciclo di concerti?

“Preparare un ciclo è un lavoro impegnativo. Posso studiare una sonata di Beethoven e non finire mai. Ma per capire questa sonata è necessario conoscere le altre trentuno. Sono curioso e voglio capire meglio ogni composizione, tutte le relazioni e gli elementi. Una catena virtualmente infinita, che comprende tutta l’attività di questo compositore, e poi la storia, la letteratura la filosofia dell'epoca. Con questi programmi voglio presentare al pubblico qualcosa di nuovo, e invito il pubblico a partecipare. Un ciclo non è un concerto normale, un divertimento – certo possiamo divertirci, non è mica un male – ma è un invito a fare un viaggio insieme”.

Quest'ultimo ciclo sembra amare i paradossi, declinando anche un lato ironico. Quanto conta l’ironia nella musica classica?

“L’ironia è anche humour. È importante, non posso sopravvalutarla. C’è stato un momento in cui il pubblico non ha accettato lo humour nella classica, perché si è pensato che questa dovesse essere una cosa seria, e profonda. Ma c’è un umorismo profondissimo e delicato. Il più grande maestro dello humour è stato Haydn. E con lui Beethoven, che di Haydn è stato allievo. Il suo è un umorismo sofisticato, basato su sorprese musicali: si aspetta una cosa e ne arriva un’altra, come un’armonia o, soprattutto, il silenzio. In Beethoven il trattamento del silenzio è profondamente ironico. Schumann usa spesso parole come “umore” ma è un altro tipo di umorismo, più vicino alla satira come nella poesia di Heine. E poi ci sono compositori che non hanno senso dell’umorismo. Anche grandissimi, come Chopin. O Schubert. In lui ci sono tante altre emozioni, ma l’umorismo no”.

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