sabato 20 aprile 2024
La pedagogista: «Anche se con fatica si può restare dentro la cultura disorientata del nostro tempo incrociando la vita di chi cerca una strada e provare a dare insieme una speranza alle cose»
La pedagogista Milena Santerini

La pedagogista Milena Santerini - archivio

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Prosegue il confronto avviato da “Avvenire” sul ruolo dei cattolici nella cultura italiana dei nostri giorni. Sul sito di Avvenire sono disponibili i precedenti contributi di Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Giovagnoli e Massironi.

Nel mondo del disorientamento e dei legami deboli, mentre, non da oggi, assistiamo alla rottura tra Vangelo e cultura (Evangelii nuntiandi), come costruire quadri di riferimento condivisi, nutriti di significati da riscoprire continuamente? In altre parole, di quale cultura siamo capaci oggi? Valorizzare il patrimonio immenso di arte, letteratura, musica, scienza che il mondo ha già prodotto nei secoli, rileggerlo con sensibilità storica e renderlo vivo in dialogo con le diverse fedi è il primo passo per colmare un vuoto. Accanto a questo, c’è anche un significato di cultura che non guarda solo al passato, ma ci riporta all’essenza fondamentale della persona che abita il mondo, cioè il prodotto del continuo rapporto tra il corpo, la mente e gli oggetti, ciò che nasce dall’esperienza degli eventi, la coltivazione quotidiana del campo della realtà che porta con sé infiniti significati. In tal senso, la cultura è l’azione di comprendere ciò che accade, raccontarlo e renderlo migliore. Oggi, queste produzioni di significato, i linguaggi, le visioni della realtà si presentano estremamente frammentate. Si assiste a una vera e propria deculturazione (Olivier Roy) tanto che sembra mancare un linguaggio condiviso, ed è in questo quadro che si colloca la domanda sulla presenza dei cristiani.

La sfida è, quindi, vivere dentro la continua produzione di cultura della società complessa. Parliamo però, non di quadri coerenti, ma di un flusso di idee e di immaginari influenzati profondamente dall’industria globale dei consumi che impone la sua cultura, dall’acquisto di certi beni a quali emozioni provare con le serie Netflix; sono espressioni e posizioni diffuse dal sistema dei social media sfruttando la psicologia delle folle per creare intensità di partecipazione e quindi aumentare l’engagement. Le Big Tech, le grandi piattaforme, devono, per mantenere l’attenzione degli utenti, creare nuovi miti, diffondere hate speech, esaltare e denigrare, accendere e spegnere. Solo da poco tempo si sta prendendo coscienza che il sistema stesso dei social ha bisogno di polarizzazione e divisione tra i gruppi per guadagnare. Forme culturali, infine, vengono create soprattutto dalle grandi forze politico-economiche, capaci di spingerci alla normalizzazione della violenza e della guerra orientando ogni giorno la comunicazione collettiva. Di fronte ad un panorama in cui le culture condivise vanno dissolvendosi, ma in cui nascono comunque altre forme di modifica della realtà e produzione di nuove linguaggi, miti, idee, emergono due importanti sfide. La prima consiste nell’interpretare e far dialogare le differenze, la seconda nella ricerca del senso.

La prima: uno sforzo di comprensione in profondità delle differenze culturali supera la spiegazione. In questo senso, ogni persona va capita nel modo originale e soggettivo con cui vive la sua cultura (a sua volta non uniforme, non delimitata da precisi confini geografici, ma dinamica e in cambiamento). E bisogna provare a capire come le culture narrative del web attraversano i confini e omologano il mondo. In tale direzione, si spiega anche il ricorso alle identità culturali come difesa e contrapposizione contro il “nemico” esterno, e come la deculturazione spinga a ricostruire altre appartenenze (pensiamo al fondamentalismo islamico o cristiano) che danno sicurezza agli spaesati. Il compito diventa, sempre di più, quello di creare una nuova interculturalità, non universalista e prepotente, ma neanche relativista e indifferente, che metta in dialogo persone orfane del quadro culturale di riferimento e in cerca i nuove identificazioni, spesso contrapposte.

C’è qui anche l’esigenza, soprattutto educativa, di aiutare a decifrare la complessità del mondo, respingendo ogni tentazione di complottismo, che nasce dall’impotenza nell’affrontare i fenomeni complessi. Recuperando la lettura storica degli eventi, dobbiamo inoltrarci in quella “foresta di simboli” che è la realtà, alfabetizzando le nuove generazioni alla loro comprensione. Nella mela di Apple c’è New York, c’è la curiosità umana ma c’è anche il libro della Genesi. In Star Wars e in Matrix ci sono i miti greci, la filosofia di Nietzsche, il buddhismo e la pedagogia gesuitica... Conoscono i giovani questa storia culturale? La comprensione dei significati complessi è il fondamento del dialogo interculturale, sempre più necessario man mano che, appunto, si sfilacciano le culture etniche e si ricompongono nuove culture etiche, spesso in conflitto: fast food contro green, pro life contro Lgbt, bellicosi contro pacifisti…

Ma la comprensione di tipo ermeneutico non basta se non si intraprende il cammino per ricercare il “senso” dei fenomeni e degli eventi (qui forse la vera educazione, al di là dei pedagogismi..). La “scelta per il senso”, di cui scrive Paul Ricoeur, è il presupposto di ogni riflessione che non voglia restare in balia della frammentazione. E ogni evento educativo è uno sforzo di costruzione di senso. Ma ci si chiede come restaurare l’interesse per la ricerca del significato in un mondo dominato da quella che Jerome Bruner chiama la «logica computazionale». Il funzionamento dei pc si occupa di informazioni già codificate, il cui significato è stabilito in anticipo. La ragione del computer si interessa di stimoli e risposte, non del senso da attribuire alle cose. La ricerca di significato e l’elaborazione di informazioni già definite sono, come afferma Bruner, processi “incommensurabili”, in quanto, a differenza del computazionalista, il “culturalista” compie operazioni interpretative sensibili al contesto e all’ambiguità della realtà complessa. Con i progressi dell’intelligenza artificiale il tema sta diventando centrale.

Cosa vuole dire per i cristiani stare dentro la frammentata cultura di tutti, spesso senza altro senso che non sia il comprare, o spingere al conflitto? I cristiani stanno dentro il mondo e ogni giorno producono cultura con gli altri, sono immersi nello stesso ambiente, non vivono in stanze separate dal mondo “laico”. Tuttavia, pur condividendo linguaggi, esperienze, emozioni, tecnologie, vivono, come spiega la Lettera a Diogneto, in un orizzonte di significati diverso, quello della Pasqua. Hanno quindi il compito di cercare instancabilmente un quadro condiviso, punti di incontro per cercare soluzioni, un linguaggio che permetta di capirsi tra giovani e vecchi, italiani e stranieri, uomini e donne, e allo stesso tempo creare bellezza, innestare simpatia dove c’è odio, compassione dove c’è indifferenza, speranza dove c’è rassegnazione, unità dove c’è divisione: aiutare la ricerca di senso di tutti.

Anche se faticoso, si può restare dentro la non-cultura disorientata del nostro tempo, incrociando tutti quei percorsi che magari non si ispirano a una dimensione religiosa ma sono tuttavia alla ricerca di autenticità (quella che Charles Taylor definisce «la cultura dei cercatori») e provare fedelmente a trovare e dare, insieme, un senso alle cose. In questo modo, le diverse esperienze umane che oggi sembrano ispirate solo dal principio ”esprimi te stesso” vengono riportate a una condivisione di quei significati che rispondono ai bisogni dei fratelli tutti, alle speranze e alle gioie di tutte e tutti.

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