martedì 18 febbraio 2014
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Il Festival di Sanremo non fa vendere di­schi, eppure mai come ora tutti voglio­no andarci. Abbiamo chiesto il perché a Caterina Caselli, talent scout e discogra­fica che dal palco dell’Ariston ha lancia­to con la sua Sugar gente come Elisa, Bo­celli, Negramaro, Malika e che porta que­st’anno Raphael Gualazzi, con The Bloody Bee­troots, e Riccardo Sinigallia. Signora Caselli, dal punto di vista dell’impren­ditrice, in questi tempi di crisi qual è la valen­za del Festival? «Sono diversi anni che il Fe­stival non fa vende­re i dischi come una volta. Da quando il mercato italiano della musica re­gistrata è precipitato a livelli di sussistenza, San­remo non è più un salvagente. Faceva vendere i singoli fino alla fine degli anni Sessanta, poi la compilation del Festival e anche gli album dei va­ri cantanti. In questi ultimi anni è rimasta la va­lenza promozionale, ma non tanto per le vendi­te, quanto per attirare l’attenzione dei media su una determinata proposta artistica. In questo è ancora insostituibile». E i talent show? «I talent show sono un fenomeno rispettabile, ma non so quanto duraturo. E comunque trattasi di televisione: servono a fare ascolti. In queste fa­se storica sono uno strumento di pre-selezione che l’industria ha imparato a utilizzare perché consente di testare le reazioni del pubblico. Crea­no enormi aspettative, ma a distanza di qualche anno il numero di quelli che riescono ad affer­marsi è davvero esiguo. Comunque il nostro la­voro è un altro». Che tipo di lavoro ha fatto, quindi, la Sugar con gli artisti che porta quest’anno? «Raphael Gualazzi è un artista così particolare che aveva bisogno di essere fatto conoscere da un palcoscenico importante e dal vivo. Per arri­vare al Festival con la speranza di ottenere un ri­sultato bisogna produrre un disco, con tutto quel che comporta in termini di investimento. Per un artista già affermato meglio essere pronti con un album. Per una nuova pro­posta può essere sufficiente rea­lizzare un singolo o un EP con tre, quattro brani, ma serve comunque un minimo di investimento promo­zionale. Quest’anno con Riccardo Sinigal­lia abbiamo fatto u­no strappo alle no­stre abitudini di portare solo artisti nati e cresciuti da noi. In questo caso il singolo e i brani dell’album erano già praticamente fi­niti e non abbiamo dovuto produrlo ex­novo. Poi non bisogna dimenticare che la par­tecipazione al Festival ri­chiede sostanziose risorse se vuoi costruire un evento intorno ai tuoi artisti, come i duetti. Ecco, a fronte di queste spese, il rimborso previsto dall’organizzatore (la Rai) non ci permette certamente di andare in pari». Quanto vale il mercato discografico italiano? «Per la prima volta da molti anni sembra che si sia invertita la tendenza, ma non è il caso di en­tusiasmarsi troppo. L’ultima stima ufficiale è di pochi giorni fa e si colloca intorno ai 117 milio­ni di euro, il 2% in più rispetto allo scorso anno, e comunque sempre il 70% in meno del 2001, ahimè». Lei cita ad esempio i risultati del Tax credit per il cinema... «Il cinema ha avuto molto presto il riconosci­mento di valore culturale e nel tempo è riuscito a sviluppare varie forme di sostegno anche in sede di Unione Europea. Di queste il Tax credit è una formula abbastanza efficace sia per trovare nuovi finanziatori attratti dalla possibilità di ri­sparmiare il 40% sulle tasse, sia per sviluppare nuovi prodotti. Qualcosa di cui anche la musi­ca, che si è sempre auto-finanziata, ha bisogno per proporre cose nuove senza mettere a rischio l’azienda ogni volta. Adesso qualcosa si è mos­so, ma la percentuale che spetta alla musica (qualcosa come 5 milioni di euro) è pari al 5% del fatturato del settore, contro i 140 milioni cir­ca del cinema che sono il 20% del loro fattura­to». La creatività crea posti di lavoro? «Per me il sistema organico di sostegno alla cul­tura che vige in Francia rimane un modello da seguire. Le industrie creative sono formidabili produttori di ricchezza sociale e quindi di occu­pazione di qualità. Un recente studio della Sa­cem (la Siae francese) ha messo in evidenza che il valore dell’intera industria creativa (cinema, editoria, musica, videogiochi, musei e beni cul­turali) in termini di Pil è superiore a quello del­l’industria automobilistica, e che in termini di oc­cupazione vale sette milioni di posti di lavoro qualificati. Se si costruisce il sistema, anche lo Stato ne avrà un ritorno fiscale». Qual è la sua idea di 'alleanza creativa euro­pea'? «L’Europa con la direttiva sull’industria creativa di due anni fa ha già mostrato di avere ben chia­ro che qui si gioca una partita decisiva per il fu­turo del mercato unico. E, mi lasci dire, anche dell’Europa politica, di cui si sente un gran bi­sogno. Ogni Paese d’Europa è un giacimento cul­turale, con una tradizione distintiva di capacità creative sviluppata nel corso di secoli, se non millenni. Un progetto specifico di alleanza fra tutte queste forze, che comprenda le arti visive e grafiche, la produzione letteraria, musicale, teatrale, cinematografica, i videogiochi, la tele­visione, internet, oltre ai beni culturali e pae­saggistici, potrebbe lanciare una piattaforma co­mune che incrementi lo scambio inter-europeo nel campo dei contenuti e soprattutto dar vita a un fronte comune per sedersi con più forza e di­fendere i nostri interessi ai tavoli delle trattative con i colossi tecnologici americani».
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