giovedì 13 agosto 2015
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Sopra Tolmin ( Tolmezzo), sopra Kobarid (Caporetto), nell’alta valle dell’Isonzo (Soca per gli sloveni), nel verde-smeraldo delle acque, si chiude tra i salici, i faggi, i pinastri, quello che fu il gigantesco mortaio, l’enorme vasca di dossi morenici e resti alluvionali, l’ hortus conclusus in cui, cento anni fa morì – nelle dodici battaglie dell’Isonzo – un milione e mezzo di giovani. Luoghi “storici” dicono oggi le guide che accompagnano in divise d’epoca e raccontano di cannoni e mitraglie. L’Isonzo restituisce ancora ossa umane, resti, ferraglie, le spinge con lentezza a valle. Lungo i pendii che fiancheggiano il fiume piccoli cimiteri con la terra rigonfia, croci deformi inclinate, croci in calcestruzzo armato con i ferri arrugginiti e scritte così: «Qui sepolti un ufficiale e due soldati». Nella roccia del canalone graffiti, sagome incise di croci, figurazioni del Cristo, una cappella votiva in un anfratto con la ringhiera di ferro arrugginita, dentro niente adesso, ma santi autoctoni e un ripiano per i lumi quando sotto il tiro del cannone. Graffi nella roccia, segni che si direbbe camuni o runici, nomi di persone e di santi in un Neolitico remoto. «Il soldato aveva scavato una piccola nicchia in cui l’immagine di San Giuseppe. Vi manteneva una candela costantemente accesa. Accanto all’immagine un gruzzolo di denari, offerte raccolte tra i suoi compagni per le candele. Una sera gli austriaci iniziano un bombardamento sulle nostre posizioni. Una granata ci colpisce in pieno. Mi precipito con altri ufficiali sul luogo, sulla terra sconvolta rosseggiano, ancora fumanti, brandelli di carne sanguinante. Con un lavoro faticoso ricomponiamo i corpi maciullati di quegli umili eroi. E quale è la nostra meraviglia quando sentiamo un flebile lamento “Aiuto! Aiuto! San Giuseppe, aiuto!” e scorgiamo che, fra quei miseri resti umani, un soldato si muove! È il fante che aveva mantenuto accese le candele dinanzi all’immagine di San Giuseppe» (Cesare Caravaglios, L’anima religiosa della guerra, Mondadori, 1935). A un secolo dall’entrata in guerra dell’Italia vale la pena di tornare a parlare della religiosità popolare, contadina, dei soldati che ha la sua rappresentazione più efficace nel lavoro di dell’antropologo e ufficiale siciliano Caravaglios (Alcamo 1893-Roma 1937). Più noto per lo studio e la raccolta di canti di trincea («Il general Cadorna è diventato pazzo / chiama il ’99 che l’è ancora ragazzo»), Caravaglios ci rende – sul crinale vita/morte, nello scenario delle totentanz di cadaveri impigliati nei cavalli di Frisia – la sequenza più efficace, più vicina alla realtà, della “religiosità popolare” del soldato. Non messe da campo, ma un individuale rapporto con il sacro. Superstizione, richiamo dell’incognito, gestualità evocative e mantra («Acqua santa ch’am bagna / Spirit sant ch’am compagna, / Bruta bestia va via da lì / Spirit sant ven sì con mì!»). Non propaganda per iconologia religiosa di opposti Paesi – a medesima religione – come era il disegno a larga diffusione del Cristo in piedi in una trincea che indica con il braccio alzato e il dito proteso il nemico. Ma bracciali e collane apotropaiche, santini, rosari, piccole custodie con la terra dei paesi d’origine, mignonnettes con acqua benedetta, fotografie votive consegnate ai santuari prima della partenza per il fronte. I giovani che partono, vanno allo studio fotografico – vasi di fiori sullo sfondo, scranni, pelli di montone anche – fanno la foto-ritratto, la prima, l’unica in divisa, e la consegnano ai piedi della icona di devozione: «Napoli 9 aprile 1916. Per grazia ricevuta da Maria Santissima del Carmine. Caporale Basa Carlo», «Che la vergine del Carmelo possa liberarti dalle insidie nemiche. Signorina Lina Squillace via Fiorentini n. 29, Napoli», «Alla Vergine del Monte Carmelo espongo la fotografia del mio fidanzato per liberarlo da ogni pericolo. Teresina Morisina», «Alla Beatissima Vergine del Carmelo in segno di Santa devozione il soldato Tecchio Ernesto del 26° fanteria. Offre». Così in sequenza, in serie senza fine di immagini, di promesse, devozioni in bella scrittura. La religiosità popolare si batte contro l’ignoto, è messa in campo contro la casualità della morte in guerra ed è un’onda enorme che dalle trincee dei soldati si rovescia sulle famiglie dei soldati, dei figli, dei mariti che le cartoline-precetto hanno costretto al fronte. Anelli, medagliette con San Cristoforo che protegge dalla morte violenta, sui metalli sono incise parole rituali e “magiche”. Corni, ferri di cavallo. Il sacro, il remoto, il pagano, il profano delle classi sociali povere. Il segno di classe che caratterizza l’estro e il mestiere dei pittori votisti nelle migliaia di ex voto della Grande Guerra. Quella povertà contadina, dove è attore il pane della sopravvivenza e del corpo del Cristo nella dedica alla Beata Vergine del Carmine, allegata a fotografia di soldato: «Madonna, devi farmi la grazia di salvarmi il figlio, ed io ti prometto che porterò nel tuo tempio tanti chili di pane per quanti sono i chili del suo peso».
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