martedì 18 agosto 2015
Mogli, madri, monache, artiste: all’interno dei regimi comunisti la resistenza femminile ha coinvolto l’intera società E ha mostrato straordinari esempi di coraggio e di speranza.
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Noi, donne e uomini nati e vissuti in Italia in settanta anni di pace, cresciuti fra diritti che diamo per scontati, noi che spesso crediamo che “libertà” sia seguire la propria inclinazione, o capriccio, leggendo le storie delle donne che si opposero al comunismo, per prima cosa, ammutoliamo. Come resi coscienti che la Storia, che con noi si è mostrata tutto sommato finora benevola, civile, forse anche banale, con altri, altrove, ma solo una manciata di anni prima di noi, ha preso volti spaventosi di sopraffazione, e violenza e prigionia. Com’è possibile dunque, viene da domandarsi, vivere in condizioni tanto tragiche, eppure non disperare? (Quando noi, nei nostri tempi molli, siamo talvolta, anche senza una autentica ragione, tristi e spenti). E invece Ella, Milena, Olga e le altre, non soltanto lottano strenuamente, ma riescono perfino, in ore pure drammatiche, a essere liete. Come può essere possibile? (E forse, ti dici, bisognerà che anche noi la impariamo, questa segreta strada, in giorni che rapidamente paiono declinare in anni oscuri, e forse, non possiamo escluderlo, feroci). La opposizione contro l’annientamento progettato dal socialismo reale non è, in queste donne, violenta, anche in situazioni in cui la violenza parrebbe legittima. Combattono, Ella, Milena e le altre, su un piano del tutto diverso. Se un filo tiene unite le loro storie, è la passione per la bellezza. Bellezza della poesia o della pittura, o del samizdat, o semplicemente della umana amicizia: comunque tutte ci appaiono trascinate da questa fascinazione potente. Può essere l’icona di un santo in una chiesa, o la ben custodita memoria del mondo splendente dell’infanzia: ma ognuna sembra inseguire silenziosamente una bellezza, e con intensità tale da poter sopravvivere ad ogni miseria. Sedotte dalla bellezza, dunque; come se questa fosse il solo possibile contravveleno all’annientamento pianificato e attuato negli anni dello stalinismo. Bellezza, ma nella accezione di una segreta rispondenza a una domanda interiore originaria di felicità e di bene. Bellezza, in fondo, come ultimo schermo con cui la realtà nasconde il volto di Cristo.  Non sono state fanciulle da oratorio, Ella, Milena e le altre. Ella, addirittura, si chiamava in realtà Kommunel-la, nata com’era da genitori comunisti ardenti. C’è spesso comunque, nelle loro vite, un movimento di allontanamento, e poi di ritorno; quasi che, esuli, nel deserto avessero compreso che veramente senza Cristo non potevano vivere. E questo provenire da una lontananza le rende, almeno a me, più vicine. Leggendo di Ella Markman, di famiglia marxista e ebrea, e della sua giovinezza irrequieta, mi è venuta in mente Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese morta a Auschwitz che nel Diario e nelle Lettere ci ha lasciato la sbalorditiva testimonianza di una vita non annientata, ma invece colmata di grazia, pure nel fondo dell’inferno. Sono simili le parole con cui le due donne parlano del lager e del gulag, come di una scuola straordinaria di umanità; e uguale la parola “miracolo”, che usano a indicare l’inconcepibile aprirsi di una pienezza, là dove gli altri sono solo annientati. «Devo dire che nella vita quasi sempre sono stata aiutata da grandi fortune, da veri e propri miracoli», scrive Ella; e la Hillesum: «La mia vita, è una catena di miracoli». Entrambe nate ebree, entrambe, da ragazze, non credenti, entrambe per segrete vie ricondotte a Cristo. Ella: «Quando sono arrivata al lager ero atea. Ma una notte che non riuscivo a dormire, ho incominciato a chiedermi chi mi poteva essere vicino in quel momento d’angoscia. [...] Poi, all’improvviso ho capito che c’era Cristo, lui era veramente vicino. Da allora è sempre stato con me». Mentre la Hillesum, gaia e intellettuale studentessa nella Amsterdam alla vigilia della occupazione nazista, una sera, leggendo la Prima lettera di san Paolo ai Corinzi, cade a terra in ginocchio: «Spinta a terra da una forza più grande di me», scrive, meravigliata.  Miracoli, voglio tornare su questa parola. Molte delle biografie evocano una capacità, in queste donne, di cogliere il miracolo nascosto nella opacità del quotidiano. Dagmar Šimková parla espressamente di «miracoli quotidiani, di tutti i giorni, che ci mostrano che non siamo da soli, né viviamo in un mondo insensato». Etty Hillesum nel campo di Westerbork sperimenta un istante di grazia, semplicemente perché ha visto in cielo un arcobaleno. Questa capacità di thauma, di stupore di fronte a cose che altri direbbero piccole, sembra una femminile ancora di salvezza in quei luoghi di annichilimento che sono i lager. La stessa Šimková annota che le donne possiedono «un istinto di sopravvivenza più forte ». Mentre l’uomo in carcere possiede «la tragicità di un leone catturato e umiliato», la donna si trasforma «in un piccolo roditore furioso», capace di «rodere e raspare con la complicità dei propri simili – fuori metafora, di ritagliarsi spazi impensabili di libertà».  Donne resistenti, dunque, alla spaventosa quantità di dolore che si rovescia sui loro destini. Prigionia, persecuzione, tortura, lutti, emarginazione: noi in questo Terzo millennio leggiamo, trattenendo il fiato per l’angoscia. Già ci stupisce che si possa sopravvivere, a simili prove. Ma che si possa, addirittura, uscirne più forti e più umane, ci sbalordisce. Ci sbalordisce la testimonianza di come si possa affrontare un destino oscuro e feroce, e, invece di esserne distrutti, crescere, e diventare più buoni. Per noi è già una dura prova perdere la casa, o il lavoro; e queste donne invece, che hanno perso tutto, come rinascono, incredibilmente.  Ancora la Šimková: «Eravamo state messe faccia a faccia con qualcosa di nuovo… Era un complotto premeditato, scientifico, contro ciò che distingue un essere umano dalle altre creature. Infatti non si trattava neppure tanto di distruggerci fisicamente… Si trattava di strappare il cuore dal petto dell’uomo, di costringere la sua anima a una prostrazione servile… Distruggere la coscienza dell’io umano, perché cessi di esistere». Che cosa dunque ha salvato Dagmar Šimková e le altre? «Abbiamo soprattutto fede in Dio – annota Dagmar –. Questo dà alla vita una dimensione che va oltre il suo confine fisico. Non abbiamo più paura di deperire, di ammalarci, d’invecchiare, di essere annientate. Preghiamo regolarmente, è una catena che non si interrompe mai, come a Cluny durante il Medioevo».  Forse che allora, ti domandi, in tempi tragici viene donata, a chi la domanda a Dio, una grazia che permette di superare i nostri limiti? Nella mia casa in un’Italia in pace, questa sera, aspetto mio marito, e i figli, che torneranno a cena: e sono liberi, sani, contenti. Non posso non vedere quanti doni ho e ho avuto – e non posso non avvertire quale immensa paura provo, all’idea di perderli. Come può essere che queste donne non fossero, invece, nei loro gulag, disperate? «Non abbiamo più paura di deperire, di ammalarci, d’invecchiare, di essere annientate...». Come vorrei poterlo dire io, e invece non posso. Ma, si può dunque vivere in un altro modo?  «Ci incontriamo al gabinetto oppure in bagno, ci sediamo sulle casse e sui secchi della marmellata e sui seggiolini che ci siamo costruite, ascoltiamo le lezioni e prendiamo appunti con zelo» scrive la Ružová. Nel deserto, lei e le sue compagne si fanno oasi, limpide fresche sorgenti; e infatti molti, attirati, si avvicinano e non se ne staccano, avendo scoperto in questi piccoli circoli clandestini l’acqua, di cui avevano sete. Pare che queste donne sappiano attirare intorno a se, naturalmente, come l’acqua va al mare, persone buone. Nei circoli segreti si mangiano biscotti, si leggono versi, si studia, si prega. Fuori è una notte cupa, e apparentemente infinita. Dentro, però, che luce. Luce che filtra e vuole, come è nella natura della luce, diffondersi più oltre. E mi viene da pensare a Natal’ja Trauberg, china a tradurre i testi dei samizdat che clandestinamente si diffonderanno, come semi sparsi dal vento su un terreno duro e incolto: eppure che là dove si posano affonderanno radici, e germoglieranno. Oppure penso alle icone dipinte da Ioanna Reitlinger. Chissà quante sono e dove sono, custodite in case sconosciute; chissà se non germinano – senza che, fuori, non se ne accorga nessuno.  Eppure, e mi commuove, queste donne straordinarie sono ancora donne. La sera nei gulag, sfinite dal lavoro forzato, si mettono l’un l’altra i bigodini, perché hanno ancora il desiderio di essere belle; e, confessa una di loro, e mi ha fatto sorridere, nelle strade di Vienna «le vetrine dei negozi mi fanno impazzire, non sai mai dove fissare lo sguardo». Di nuovo mi viene in mente Etty Hillesum nel suo Diario, che ordina a se stessa: «Smettila con quello specchio, tu sciocca!» (detto in un tono severo eppure sommessamente ridente, come di chi sa che, un’ora dopo, sarà di nuovo, a quello specchio, davanti). C’è una bellezza profondamente femminile nelle storie delle cristiane dei gulag, martiri del socialismo eppure umanamente trionfatrici. Come un segreto, legato forse alla stessa femminile capacità di generare; in virtù della quale una donna, come intuiva Dagmar Šimková, davvero possiede una più strenua volontà di sopravvivenza nelle condizioni più dure; e una capacità di vedere miracoli, là dove gli altri vedono il nulla. Forse la stessa voce della natura, che come la freccia di un arco tende a vivere e ostinatamente a riprodursi, governa queste donne arcanamente; ma la vita che esse generano non è solo biologica, è invece una forza spirituale rivoluzionaria e possente.  Per questo mi piace ricordare le parole con cui Olga Popova, nata in un gulag, descrive come sua madre ne usci, con lei fra le braccia. Quasi miracolosamente, infatti, qualche mese dopo il parto, sua madre venne liberata: «Raccontava che quando d’un tratto si era vista spalancare davanti il portone del carcere, si era messa a correre, stringendomi tra le braccia, e era fuggita attraverso tutta la città, dimentica del tempo, senza sentire la stanchezza e il mio peso, ma solo l’ebbrezza della libertà, e il terrore che ci fosse stato un equivoco, che potessero da un momento all’altro rimetterle le mani addosso; solo più tardi si accorse, fermandosi, di aver percorso un tragitto lunghissimo». Quella madre con un figlio in braccio, quasi come una Madonna, icona di una vita e di una speranza che nessun muro di gulag, o di lager, sa annientare. 
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