giovedì 20 agosto 2015
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«I musei statali avevano bisogno di una spinta, di un cambiamento». Domenica Primerano commenta positivamente la riforma Franceschini e le nuove nomine a capo dei musei statali. Architetto, è direttrice del Museo diocesano di Trento, uno dei più importanti e attivi in Italia, e da marzo è presidente dell’Associazione dei Musei Ecclesiastici Italiani. «Pensi che la definizione Icom di museo viene accolta dalla legislazione italiana solo adesso. Nel paese dove i musei erano il fulcro dell’attività, mancava per legge la definizione di cosa sia un museo». Qual era il limite principale della precedente organizzazione? «In queste grandi istituti statali c’è immobilismo. Posso dirlo perché vi ho lavorato per diverso tempo e per quello me ne sono andata. Gestiti come erano non potevano proseguire. Sandrina Bandera lamentava il fatto che i custodi di Brera erano tanti ma organizzati in modo da non poter lavorare il sabato e la domenica. Un museo così, gestito come un ufficio, non può essere competitivo. Anche per questo altre realtà hanno preso piede e superato questi luoghi. Abbiamo musei importanti che hanno bisogno di essere gestiti diversamente. L’autonomia è importante. In precedenza c’era confusione tra i ruoli di tutela e valorizzazione, che convergevano su una stessa figura». Come giudica le scelte dei nuovi direttori? «Non mi scandalizza che diversi siano stranieri. È successo anche per molti italiani all’estero. E per noi è uno stimolo a lavorare al meglio. Uno dei punti focali della riforma è il riconoscimento della centralità   della figura del direttore».  Ma questa nuova autonomia può comportare rischi? «L’importante è che i nuovi direttori siano stati scelti, come sembra, non tanto perché manager ma perché hanno competenze specifiche. Il problema è che i musei non siano trasformati in ciò che non devono essere. Serve attenzione, perché un museo, diventato autonomo, deve trovare finanziamenti mantenendo fissi i propri obiettivi. Non sono contraria all’ingresso dei privati. Sono contraria piuttosto alla cultura che diventa intrattenimento, semplice da affrontare, che non costa fatica. Non bisogna fare cose che poco hanno a che fare con la finalità del luogo. Il pericolo è svendersi. Il museo non deve essere un luogo per specialisti ma nemmeno dove si fanno happy hour. Dobbiamo lavorare perché i giovani entrino, ma ad altre condizioni». In che direzione si dovrebbe andare? «Bisogna trovare un giusto equilibrio: rilanciando il legame con il territorio, potenziando i reparti educativi. E sganciandosi dalla semplice conservazione. È una sfida grossa». Ma basta cambiare la testa perché il corpo si trasformi? «È in effetti il vero problema. Se un nuovo direttore si trova di fronte a una difesa a livello sindacale altissima, ad esempio sugli orari di lavoro, ha le mani legate. Serve volontà da parte della macchina di riorganizzarsi, altrimenti tutto è inutile. Servono poi fondi. Il dubbio sulla riforma Franceschini è che è importante come mentalità ma necessita di risorse. Se diverse cose sulla carta possono essere giudicate positivamente, bisognerà vedere cosa accade nella pratica». Che indicazioni può dare al mondo dei musei diocesani questa trasformazione? «Ribadisce la necessità di passare da una pura tutela e conservazione, ragione per cui sono nati i nostri musei, alla valorizzazione. Un fatto che significa la trasfor-mazione del museo in un laboratorio per la città e per la contemporaneità. E poi la centralità della figura del direttore, che non è di pura rappresentanza come spesso avviene nei nostri musei. Il direttore deve essere stabile, avere capacità operative e una durata sufficiente per impostare e proseguire il suo lavoro. Deve essere a tempo pieno, e non ricoprire più incarichi come accadeva nel passato nei musei statali e come spesso accade nei diocesani. Per i nostri musei è un fatto centrale: serve una figura stabile, anche per più musei in rete».
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