sabato 23 giugno 2018
Il regista Luca De Fusco porta in scena la rilettura dello scrittore irlandese. Svettano le straordinarie interpretazioni di Gaia Aprea ed Eros Pagni
Una scena di Salomé, di Oscar Wilde per la regia di Luca De Fusco, al Teatro Grande di Pompei

Una scena di Salomé, di Oscar Wilde per la regia di Luca De Fusco, al Teatro Grande di Pompei

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Tramutare l’acqua in vino? Non ho proprio niente in contrario. Guarire ciechi? Mi pare un’ottima idea. E ancor più sanare i lebbrosi. Ma resuscitare un morto, mai!». È Erode Antipa, tetrarca di Giudea, che sta parlando. Nel corso del lungo banchetto a corte che coincide con la storia di questa commedia-dramma, Salomé. Si adira, è un potente funzionario sovrano servitore dell’imperatore romano, è abituato a dare ordini: «Trovate quell’uomo e ingiungetegli che gli proibisco di resuscitare i morti, che disastro se i morti resuscitassero». Questa è la reazione del tetrarca di una corrotta provincia del corrotto impero romano alle voci diffuse di un uomo che opera taumaturgicamente. Annunciato da un profeta, Jokanaan, che il regnante tiene prigioniero in una cisterna, ma che rispetta e in fondo teme. Profezie, miracoli. La moglie di Erode, Erodiade, sposata da lui dopo averne fisicamente eliminato il marito, secondo il modello amletico, non è da meno: non crede ai miracoli, ne ha già viste troppe.
Basterebbero questi due episodi e queste pochissime battute per intuire lo spirito dell’opera teatrale più strana e inquietante e confondente di Oscar Wilde, infallibile invece quando scrive commedie basate sul divertimento assoluto, come l’irresistibile La fortuna di chiamarsi Ernesto. E poeta toccante quando autore di fiabe, le più belle scritte in Occidente accanto a quelle di Andersen.
Un reggente corrotto, un impero decadente, una giovane, figlia di Erodiade e figliastra di Erode, sensuale, narcisista, inafferrabile, per cui tutti, a partire da Erode, delirano. Un banchetto con ospiti giudei, romani, assiri, su una fastosa e orientaleggiante terrazza. E lo spirito di Wilde riassunto nelle due battute appena citate: riso, ironia, esorcismo sarcastico della morte. L’opera più decadente dell’autore, accanto al romanzo Il ritratto di Dorian Gray. Ma credo errato leggere le due opere su un piano di parallelismo. In Salomé esiste anche un profeta, e su lui l’autore non scherza. In Salomé esiste anche dramma, seppur morboso; e sviluppo tragico: Salomé, in cambio della lussuriosa danza dei sette veli concessa alle voglie di Erode, che le ha promesso qualunque cosa chieda, esige la testa del profeta. Il patrigno resisterà, ma dovrà rispettare la parola di re. Salomé si vendica del profeta che ha voluto, corpo, capelli, bocca, baci, e che l’ha rifiutata sdegnosamente. Certo, c’è dramma. Anche perché Erode, alla vista della giovane che bacia il volto decapitato del profeta dopo aver ballato sul sangue di un cortigiano che per amore di lei si è appena ucciso, la condanna a morte. Ma il registro comico è presente, per cui qui tragedia e commedia si fondono in modo grottesco. Bastino queste considerazioni per ammirare il coraggio che ha mosso Luca De Fusco a scegliere questa pièce non a caso rappresentata pochissimo, difficile, ambigua. De Fusco agisce chirurgicamente, laser preventivo. Evita ogni estetismo, ogni indulgenza barocca, essenzializza.
La scena si drammatizza, qui, a Pompei bloccata nel turgore della civiltà romana di carne, sensi, con la bottega del vinaio e il forno del pane, e le case con le piscine, le terme, nel miracolo crudele e ispirante della vita bloccata nel suo svolgersi, capace, grazie alla lava, di mantenere il moto del suo svolgersi… fa effetto assistere a Salomé, una storia della civiltà romana già nella sua piena decadenza. Lo spettacolo, che debutta a Pompei, Teatro Grande, in scena fino a oggi, si svolgerà poi in teatro a Napoli, in ottobre, seguito da una lunga tournée.

Il regista rispetta il testo alla lettera, e per accentuare la mascherata ma esistente drammaticità in maschera, rinuncia a un ritmo che potrebbe concepirsi wildianamente più incalzante, ma che qui stonerebbe. Semmai la musica di Ran Bagno dovrebbe battere e incalzare, e non fungere da morbido accompagnamento, mentre l’uso del cinema in cui il regista è maestro (maestro di fusion scenica), si fonde perfettamente con le luci dell’altro maestro Gigi Saccomandi.
L’insistenza sulla drammatica follia di Salomé, oltre a esaltare una formidabile Gaia Aprea, accentua il contrasto con la figura del profeta (Giacinto Palmarini), figura che nel testo scritto potremmo immaginare anche troppo convulsa e tremante, e che invece De Fusco sceglie e fa completamente “cristica”. Bella, bianca, innocente, docile come un agnello. Per questo il crescendo finale, potente, svela una tensione spirituale che Wilde possiede sempre e che spesso a molti fa comodo non vedere, lasciandosi fuorviare dai suoi scherzetti maliziosi, cinici quanto nascostamente addolorati.
Battute rispettate, ma in scena, alla fine, un’azione a sorpresa, che davvero muta la storia, o la complica. Una scelta coraggiosa, quella del regista. Non sta a me condividerla né anticiparla al lettore. Ma è una scelta estremamente forte e intelligente. Pietosamente crudele, e De Fusco sta dalla parte del profeta mansueto, e condanna la corte dei non miracoli dello spettacolo e del banchetto e del sangue rubato e non offerto. Da attori che rendono Wilde anche tragico, a modo suo ma tragico, in ogni personaggio e sommamente nel crudele, perverso eppure sapiente tetrarca, un Eros Pagni straordinario e affiancato da interpreti impeccabili.

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