martedì 15 gennaio 2019
Parla la ragazza di Riad, pioniera del pallone in Arabia: «Da bambina andavo allo stadio “camuffata”, ma a Gedda per Juve-Milan ci saranno tante donne»
Saja Kamal si prepara prima di un allenamento

Saja Kamal si prepara prima di un allenamento

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«Penso a tutti i cambi che stanno accadendo ora, abbiamo la possibilità di creare una Nazionale femminile. L’idea sembrava impossibile prima, ma adesso ho di nuovo speranza, anche se c’è ancora molto da fare». Saja Kamal, classe 1990, vive a Riad ed è una delle pioniere del calcio femminile in Arabia Saudita, il Paese che domani ospiterà la Supercoppa Italiana tra Milan e Juventus. «Ho cominciato a quattro anni su spinta di mio padre – racconta la ragazza, simpatizzante proprio dei bianconeri di Max Allegri – non c’erano squadre femminili e neppure posti dove le ragazze potessero giocare e allenarsi, così ho dovuto unirmi alla squadra del compound dove lavorava papà (in Arabia Saudita gli stranieri impiegati per esempio nelle compagnie petrolifere vivono in complessi separati). Se papà non fosse stato impiegato e avessi vissuto lì, non avrei potuto coltivare questa passione e imparare alcune abilità calcistiche ». Un amore forte, viscerale («mi sono innamorata dopo la mia prima partita da bambina e scoprii che giocare era quello che volevo fare per il resto della mia vita») che Saja, ruolo esterno destro d’attacco, ha potuto far crescere grazie alle esperienze all’estero. «Alle superiori ho studiato in Bahrain. Facevo la pendolare tra casa mia in Arabia Saudita e la scuola e il campo, con un viaggio di un’ora al giorno. Lì sono stata notata dalla Arsenal Soccer School e ho potuto raggiungere la squadra in Gran Bretagna. In quel momento – prosegue Saja, che ha collaborato con la Ong Equal Playing Field, giocando sul Kilimangiaro in Kenya con una squadra di donne, il match di calcio “più alto” della storia, entrato anche nel Guinness dei Primati – ho capito cosa volesse dire essere un’atleta professionista, ma ho anche realizzato che non avrei avuto le stesse opportunità delle altre donne del mondo, non per la mia incapacità o per l’età, ma per la mia nazionalità e genere. Ed era frustrante ».

Dopo il liceo Kamal ha studiato negli Stati Uniti, ottenendo una laurea e un master alla Northeastern University, diventando membro della formazione dell’ateneo. «Negli Stati Uniti ho sperimentato la possibilità di essere me stessa. Potevo giocare ogni volta che volevo, contro chiunque, compresa la squadra maschile, a calcetto, oltre che con le mie compagne». E quando è tornata in Arabia Saudita, per lavorare alla Aramco, la compagnia nazionale di gas e petrolio, Saja il pallone non l’ha messo in soffitta. «Ho creato una squadra nel compound dove lavoravo – racconta la 28enne saudita, una delle prime ragazze del suo Paese a guidare un auto – ma era molto difficile e febbrile gestire un gruppo di donne che non potevano dedicarsi all’allenamento e alle partite. Poi c’erano i tempi di spostamento resi più difficili dalle limitazioni di viaggio, oltre al fatto che non ci fossero squadre contro cui giocare. Dopo due anni abbiamo smesso ma il mio obiettivo rimane quello di unirmi a una squadra, ma come calciatrice ». Le difficoltà incontrate dal team di Kamal sono simili a quelle vissute da altre squadre in Arabia Saudita, dove il calcio femminile è sbarcato ufficialmente nel 2006 con la nascita del Jeddah King United, il primo club “rosa” del Regno, sostenuto inizialmente dal Principe Al-Waleed, membro della famiglia reale e proprietario della Kingdom Holding Company, la più grande holding del Paese. Ragazze e donne, tra i 13 e i 35 anni, che si allenavano tre volte a settimana, con calzoncini e maglie a maniche corte, assistiti da uno staff, oltre che da un pubblico, rigorosamente femminile. Dopo il Jeddah King United, guidato in panchina da Reema Abdullah che della squadra era pure il bomber, sono fioriti altri club. Tipo la formazione della Prince Mohammad bin Fahd University, dove nel gennaio 2008 si è giocato il primo match ufficiale tra due squadre femminili vinto dalla formazione locale davanti a 35mila spettatori, tutte donne, o come le United Eagles, fondate nel 2016 a Gedda e formate da ragazze tra i 18 e i 22 anni. Un percorso tra alti e bassi, perlopiù legati alla situazione politica interna del Paese.

Ora c’è il Saudi Vision 2030, piano del governo che ha tra gli obiettivi un coinvolgimento maggiore delle donne, pure nello sport. Nell’ottobre 2017 è stato emanato un decreto che consente alle donne di entrare negli impianti sportivi del Regno e un mese dopo è stato giocato a Gedda il primo torneo calcistico femminile con sei squadre partecipanti, mentre rimane per ora tabù la creazione di una Nazionale saudita, anche per l’opposizione dei settori più conservatori della società locale. «Ci sono almeno 8 squadre femminili e 500, tra ragazze e bambine, che giocano a calcio solo a Riyadh», continua la Kamal che si autodefinisce «una donna che si batte per l’uguaglianza di genere di tutte le minoranze dello sport». Uno scenario in piena evoluzione in cui si inserisce la Supercoppa italiana di Gedda, condita, almeno nel nostro Paese, da polemiche. «Io volevo esserci alla partita – conclude Saja, che sul suo profilo Instagram ha anche raccontato come da bambina si sia “camuffata” per poter vedere un incontro di calcio – ma è tutto esaurito e questo vuol dire che molte famiglie e donne assisteranno al match. Credo che un boicottaggio internazionale sarebbe controproducente per i progressi delle donne saudite nello sport. Ho assistito a due match in Arabia Saudita e la gente era così entusiasta. Addirittura le steward donne stavano accompagnando i visitatori allo stadio, stiamo diventando sempre più coinvolte da quelle esperienze che non abbiamo mai avuto prima». E Saja sogna di essere protagonista anche in campo, magari con la maglia della sua Nazionale.

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