domenica 22 settembre 2019
Parla Brian, figlio del ct della Nazionale: «Deluso per non aver giocato il Mondiale ma comprendo la decisione di papà. Nella vita ho avuto tanto, ora voglio aiutare chi è in difficoltà»
Brian Sacchetti, impegnato nel progetto One Team per le persone disabili (sito Basket Brescia)

Brian Sacchetti, impegnato nel progetto One Team per le persone disabili (sito Basket Brescia)

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L’estate è scivolata via portando con sé il peso di un Mondiale accarezzato fino all’ultimo e poi svanito sul più bello dopo la decisione di suo padre di non inserirlo tra i dodici azzurri convocati per la rassegna iridata. Ma Brian Sacchetti, figlio di Meo, ct della Nazionale di basket, arriva in palestra sereno e determinato come non mai: «Sarei ipocrita se dicessi che non sono rimasto deluso. A solo due giorni dall’inizio del torneo cominciavo a crederci. Ma sapevo che sarebbe stata dura e poi davanti a me avevo giocatori Nba e di Eurolega. Pur dolorosa la scelta di mio padre è stata “giusta” come ha detto anche lui. E poi questo “taglio” non ha fatto altro che motivarmi di più. Anche a papà l’ho detto: torno in palestra per allenarmi ancora più duramente e riconquistare la maglia azzurra che regala emozioni uniche». Sacrifici e lavoro, è questo in fondo il segreto che ha consentito a Brian, oggi pilastro della Germani Basket Brescia, di raggiungere i vertici della pallacanestro italiana (con oltre 300 presenze in serie A) mettendo a tacere le malelingue che lo accompagnano da sempre: «Già a quindici anni: dalla Serie B alla Nazionale tutti gli anni in cui papà è stato mio allenatore ho dovuto fare i conti con l’etichetta di “figlio di papà”. Mi dà ancora fastidio, ma ormai ci ho fatto il callo e a 33 anni non ci bado più. Penso solo a lavorare». Basta vederlo in azione in allenamento: chi lo conosce bene sa che non ci sta a perdere un solo “uno-contro-uno”. Tutto quello che ha messo in bacheca come gli straordinari successi con Sassari (scudetto, due Coppe Italia e Supercoppa italiana) se li è guadagnati sul campo. Qui sa essere “cattivo” come un pezzo di heavy metal il suo genere musicale preferito. E con la stessa carica si presenta al via della nuova stagione, senza rimpianti azzurri ma anzi con il sorriso: «Rimango il primo tifoso di papà, pur essendo l’ultimo tagliato… ».
Che voto dà all’Italia e a suo padre nel bilancio mondiale?
Sufficienza piena. L’obiettivo principale era qualificarsi al torneo preolimpico e ci siamo riusciti. Un po’ di rammarico poteva esserci per la partita contro la Spagna perché abbiamo dimostrato di potercela giocare. Ma alla luce del trionfo spagnolo direi che non possiamo avere alcun rimpianto. Do 6,5 anche a mio padre… Non voglio essere troppo buono con lui anche perché lui non lo è mai stato troppo con me…
Non è arrabbiato nemmeno un po’ con suo padre per il “taglio”?
No anzi l’ho confortato dicendogli che aveva preso una decisione difficile e doveva essere orgoglioso per aver portato la Nazionale al Mondiale visto che da tredici anni non ci andavamo.
La Serie A riparte con stelle di livello internazionale.
Sarà un campionato più bello e difficile. Gli arrivi di Rodríguez e Teodosic riaccendono i riflettori su un torneo che aveva perso un po’ di appeal per i giocatori stranieri. E spinge anche le altre squadre a rinforzarsi. Milano parte per forza favorita, poi con Messina le aspettative sono alte anche in Eurolega. Bologna sarà un’antagonista, ma non si può dimenticare Venezia campione d’Italia. Quanto a Brescia vogliamo far meglio dello scorso anno: abbiamo un bel mix di esperienza e talento e c’è tanta voglia di sbucciarsi le ginocchia l’uno per l’altro.
Lei ha cominciato molto presto a giocare, ma il basket era nel suo destino sin dai primi vagiti…
Sì, mio padre mi ha dato il nome del suo idolo Brian Winters giocatore di Milwaukee Bucks… Mia madre non era d’accordo, ma lui ha approfittato della sua stanchezza in ospedale dopo il parto per bloccare un’infermiera e registrarmi all’anagrafe. Però a noi figli ci ha sempre lasciati liberi di scegliere, importante era fare uno sport. Solo che vedendo lui a 5 anni avevo già la palla da basket in mano…
Che cosa pensa di aver appreso da suo padre?
Oltre alla passione per questo sport, la voglia di sacrificarmi e dare tutto in ogni cosa che faccio. Poi papà è uno che dice sempre quello che pensa, in campo e fuori. E questo può essere anche un difetto in questa società, soprattutto nel suo ruolo da ct. Ma io l’ho sempre ammirato per la sua schiettezza. È sempre stato un “orso buono” a dispetto della stazza, ma guai a farlo arrabbiare...
Da ct della Nazionale a volte si è lamentato della mancanza di disciplina.
Lui dà molta libertà al giocatore perché ha molta fiducia nell’uomo. Quel- lo che però a papà dà fastidio è vedere che non dai il massimo. Lui si è costruito una carriera partendo dal nulla e per aiutare la famiglia andava a scaricare le angurie alla stazione. Per lui sacrificarsi per un’altra persona viene prima di tutto.
L’infanzia di suo padre non è stata certo facile.
Sì, il suo papà è morto quando lui era in fasce, e mio padre è nato in un campo profughi mentre tornavano dalla Romania. Io ci penso spesso, lui non ha avuto la mia stessa fortuna. Ma papà non ci ha mai fatto percepire i problemi che ha avuto, non voleva intristirci.
Suo padre dice spesso: «A Brian non ho mai regalato niente, forse gli ho tolto qualcosa».
Sì, il mio obiettivo è sempre stato quello di dimostrare di essere lì non per in quanto figlio di papà. Ma non l’ho mai chiamato “coach”. Prima di essere un giocatore sono un uomo e quindi essendo figlio suo per me è papà anche in campo.
Lei si è tolto diverse soddisfazioni in carriera.
Indimenticabile il “triplete” a Sassari o la partita con la Lituania in azzurro. Alla Sardegna poi sono legato in maniera speciale. A luglio mi sono sposato nella cattedrale di Alghero: quando ho visto Manuela entrare in chiesa, ho provato un’emozione incredibile, trenta secondi che valgono più di ogni canestro. Il matrimonio che era un mio obiettivo è senz’altro il giorno più bello della mia vita insieme alla nascita di mia figlia Rebecca che ha 11 anni e vive con la madre.
Quest’anno è ambasciatore del progetto One Team del Basket Brescia Leonessa che coinvolge due associazioni, Icaro Onlus e Special Olympics, che si occupano delle persone con disabilità.
Sono molto felice perché dimostra come la pallacanestro possa essere un efficace strumento di insegnamento di vita per imparare soprattutto a rispettare gli altri. Quello del volontariato è un campo che mi piace molto. Vorrei impegnarmi anche in futuro, ne sto parlando con il parroco di Alghero. Anche perché la fede è una dimensione importante sia per me che per mia moglie e tutta la mia famiglia. Non dimentico i tanti pellegrinaggi con la nonna, partivamo in treno e alloggiavamo dalle suore, come quella volta a Roma da papa Wojtyla…
Coach Recalcati che l’ha fatta esordire in azzurro nel 2009 dice che lei è il giocatore che ogni allenatore vorrebbe avere in squadra.
Mi sento il fratello maggiore di tutti, cerco di aiutare sempre il prossimo e di mettermi a disposizione della squadra. Vorrei essere d’esempio per i più piccoli e se un giorno avrò altri figli assicurargli la massima serenità possibile come sto cercando di fare già con Rebecca.
L’attaccamento alla famiglia ha voluto stamparlo anche sulla pelle.
Sì sono molto legato a mia madre e mio padre, così come a mio fratello e mia sorella e li ho omaggiati con un tatuaggio di cui sono appassionato. Mio padre li odia, ma pazienza non possiamo essere uguali. Io mi sento un privilegiato e tutto quello ho lo devo ai miei genitori. Penso a quanti non hanno avuto questa fortuna e non posso far altro che ringraziarli.

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