sabato 14 novembre 2020
La nazionale oggi ha sconfitto per la prima volta gli All Blacks. Il rugby è lo sport dell'Argentina ricca, come il fútbol lo è di quella povera. Nella sua storia recente ci sono tanti desaparecidos
Le macchie dei Pumas: i trionfi e le ombre dell'Argentina del rugby

Jeanfrancois Beausejour / CCby2.0

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La chiamano grieta. È la “crepa” che da sempre spacca il paese in due. Un paese nato diviso, tra gauchos e oligarchi, estancieros e peones. Una storia di fratture inconciliabili: peronisti e antiperonisti, milicos e montoneros, kirchneristi e macristi. Succede nella politica e succede nello sport, che poi forse è politica con altri mezzi. In questo perenne Boca-River, c’è un’Argentina dove lo sport è prima di tutto status. Per l’élite, il polo. Poi il rugby. Ultimo viene il fútbol, negro e volgare nel suo cercare il riscatto sociale mediante il denaro. La plata che tutto può, meno cancellare il solco tra ricchi e poveri.

Pregiudizi e luoghi comuni hanno il loro perché: i figli della Buenos Aires bene frequentano college privati dal nome inglese e giocano a rugby. Scuola di valori e fratellanza, riassunta da quel passare l’ovale a chi sta di fianco o dietro, mai in avanti. Nella buona società, il pallone rotondo si guarda e magari si calcia pure, ma non per lavoro. Questo mito in Argentina ha un simbolo: i Pumas, la nazionale di rugby che oggi per la prima volta nella sua storia ha battuto i maestri della Nuova Zelanda.

Era il trionfo che mancava ai libri di storia dello sport argentino, un incredibile 25-15 al Bank West di Sidney per il secondo round del Rugby Championship 2020, quadrangolare in cui il forfait del Sudafrica (causa Covid) ha lasciato l’Argentina sola contro All Blacks e Wallabies. Tutti i punti sono stati segnati da Nicolás Sánchez, mediano d’apertura della remota San Miguel di Tucumán, nel nord ovest argentino, che ha così battuto il record dei 21 punti con cui nel 1985 Hugo Porta impediva agli All Blacks di espugnare Buenos Aires. Fino a oggi, l’unico match non perso contro i neozelandesi. A dirigere i Pumas, Mario Ledesma, colonna di quella nazionale che il 20 ottobre del 1999 batteva 28-24 l’Irlanda allo stadio Felix Bollaert di Lens, portando l’albiceleste nell’elite mondiale dell’ovale. L’ultimo scontro tra All Blacks e Pumas risale al luglio 2019, dignitosa sconfitta casalinga allo stadio José Amalfitani di Liniers, il fortino del Vélez Sarsfield, riempito da un pubblico orgoglioso di quei giganti buoni che lottano nel fango e si commuovono per l’inno nazionale. Con i mercenari del fútbol non succede, ci si dice sugli spalti.

Eppure in quell’occasione gli All Blacks spiazzano tutti, chiedendo e ottenendo di conoscere l’ESMA, la Scuola di Meccanica dell’Armata. Dei vari centri clandestini di tortura e sparizione dell’ultima dittatura militare, forse il più tremendo e agghiacciante, da visitare. Un gesto inaspettato, per un ambiente la cui politica, normalmente, è non parlare di politica, e dove però si inciampa sempre nella storia di quel rugbista asmatico di nome Ernesto, nato a Rosario, morto in Bolivia e sepolto a La Habana. Dei 220 atleti professionisti desaparecidos, 152 erano rugbisti, e 20 giocavano (o avevano giocato) nel club di La Plata su cui Claudio Fava ha scritto un romanzo (Mar del Plata) con echi siciliani che smontano il tono marziale dei militari argentini, mostrandoli per quello che in fondo furono. Mafiosi.

Esattamente un anno fa, l’Unione Argentina del Rugby dava un primo timido passo verso il riconoscimento ufficiale dei rugbisti vittime del terrorismo di stato (omaggio che finora non c’è stato), mentre lo scorso week end a San Juan si è celebrata la quinta edizione del torneo itinerante di rugby in memoria dei giocatori scomparsi. A organizzarlo, la ricercatrice Carolina Ochoa ed Eliseo “Chapa” Branca, storica bandiera del Club Atletico San Isidro e seconda linea dei Pumas.

Il 3 aprile del 1982, all’indomani della sciagurata invasione delle Malvinas da parte dell’esercito argentino, Branca prendeva parte a uno dei miti fondazionali del rugby albiceleste: il trionfo (21-12) contro gli Springboks sudafricani allo stadio Free State (nome curioso per un regime d’apartheid) di Bloemfontein. Sulla maglia di quel giorno però, oltre al puma ci sono anche le mascotte di Uruguay, Paraguay, Cile e Brasile. Al contrario della Nuova Zelanda (dove dal 1969 è attivo il gruppo di protesta HART, Halt All Racist Tours), la federazione argentina aggira infatti l’isolamento internazionale imposto al Sudafrica dell’apartheid, aggiungendo al nucleo della propria nazionale alcuni giocatori dei paesi vicini.

Nella terra del tango non potevano mancare le ragioni del cuore: fu durante il tour africano del 1965, spiegano, cominciato in Rhodesia e culminato a Johannesburg contro gli Junior Springboks, che il giaguaro (yaguareté) ricamato sulle casacche argentine era stato ribattezzato “puma” dalla stampa locale. Durante il (ben pagato) tour dell’82 la selezione continentale Sudamerica XV schiera quasi esclusivamente giocatori argentini. Tra questi, col numero 14, un giovane wing e tryman del CASI di San Isidro, compagno di squadra e di stanza di Eliseo Branca: Alejandro Puccio. Il volto che il rugby argentino cercherà di lasciare per sempre nell’ombra, il mostro riflesso nello specchio ovale.

Il 23 agosto 1985 la polizia lo arresta insieme alla banda di sequestratori e assassini fondata e comandata da suo padre, Arquimedes Puccio, ex militante Tacuara (ultradestra peronista) ed ex membro dell’intelligence (SIDE). Con il silenzio e l’amore di moglie e figlie, e l’appoggio di due dei tre figli maschi, ha trasformato la casa di famiglia in base operativa e prigione per vittime della Buenos Aires ricca. Rampolli della San Isidro che vive tra rugby e uscite in barca, puntualmente giustiziati dopo l’avvenuto pagamento del riscatto da parte dei familiari. Una storia morbosa e surreale, portata al cinema da Pablo Trapero con Il Clan. Sullo sfondo, una classe alta che scopre troppo tardi l’impunità di chi, per un decennio, ha fatto del terrore il proprio mestiere.

Con il regime militare allo sbando, il bersaglio delle sue cellule fuori controllo non è più chi fa politica, ma chi ha i soldi. Tra i compiti di Alejandro, agganciare per strada le vittime prescelte, il giorno del sequestro. Gente che lo ammira, che si fida di quel talento bello ma con i piedi per terra. Come Eduardo Aulete e Ricardo Manoukian, il primo a cadere, nel luglio ’82, a pochi mesi dal trionfo in Sudafrica. Una doppia vita, la sua, che nessuno tra CASI e Pumas sospetterà mai. I primi tempi, dopo l’arresto, il suo compagno Eliseo Branca lo va a trovare in carcere. Fino a quando non scopre che il suo nome era sulla lista dei prossimi obiettivi del Clan Puccio.

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