martedì 22 gennaio 2019
Dopo Milano, in concerto giovedì a Torino, il 25enne è un talento esplosivo apprezzato in tutto il mondo: «Voglio portare bellezza nelle vite degli altri. Non c'è limite a ciò che può essere suonato»
Il percussionista Simone Rubino è nato a Chivasso (Torino) nel 1993

Il percussionista Simone Rubino è nato a Chivasso (Torino) nel 1993

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Simone Rubino in mezzo all’arcipelago dei suoi strumenti sembra un bambino in un Luna Park. Saranno i suoi 25 anni, età che non gli impedisce di essere riconosciuto come uno dei percussionisti più talentuosi sulla scena internazionale. Sarà l’entusiasmo che irraggia, entusiasmo che non pare scalfito dalla messe di premi vinti, dalle platee e dalle collaborazioni ( Wiener Philharmoniker, Accademia di Santa Cecilia, Concertgebouw, Münchner Philharmoniker…). Marimba, woodblock, tom-tom. Vibrafono, bonghi, tamburi di ogni tipo. Ci sarà una selva di strumenti di tutte le fogge e le dimensioni stasera sul palco del Conservatorio di Milano dove suonerà per la Società del Quartetto (mentre il 24 sarà a Torino con l’Orchestra nazionale della Rai con Tan Dun per il suo The Tears of Nature): «Ho portato tutti gli strumenti con un camion da Colonia, dove vivo, a Torino dove sono nato – dice Rubino – Portarsi gli strumenti è un lusso, ma suonare con il proprio strumento è essenziale: la conoscenza intima del proprio strumento porta a risultati non indifferenti. Certo, è un vero lavoro di logistica e di burocrazia».

La letteratura per percussioni soliste è recente ma ha avuto un grande sviluppo. Quale è la competenza dei compositori nel trattare in modo proprio le percussioni?

Ho collaborato con compositori che hanno scritto brani per me ma anche concerti per percussioni e orchestra e finora ho notato che spesso devo avere con me un cancellino e una matita per cancellare o aggiungere note. Da interprete cerco di intendere l’idea musicale del compositore che per essere comunicata attraverso questi strumenti richiede una revisione della scrittura. È come se fosse scritta in un’altra grammatica, e per questo devo compiere una sorta di traduzione. A volte è semplice, altre è molto complicato. Ho notato però che la competenza dei compositori nello scrivere per percussioni è continuamente in crescita. Quella delle percussioni è un po’ come una lingua nuova, che deve essere ancora conosciuta e metabolizzata».

Chi sono i compositori che secondo lei meglio scrivono o hanno scritto per percussioni?

Si nota una grossa differenza tra autori di mezzo secolo fa e i più recenti. Autori di pieno Novecento come Milhaud o Jolivet, tra i primi a scrivere per percussioni soliste, avevano idee meravigliose ma molto penalizzate dalla scarsa conoscenza della tecnica dello strumento: i solisti di allora erano assai meno e il livello tecnico più basso. Oggi ci sono grandi compositori di generazioni diverse, come Friederich Cerha e Tan Dun; oppure penso Avner Dorman, un compositore americano che ha scritto per me un concerto per percussioni e orchestra. E soprattutto c’è un’attenzione crescente. John Adams dovrebbe scrivere un concerto, e ho sentito che anche John Williams sta lavorando a una partitura. Tra 40 anni la situazione sarà diversa, la scelta sarà più vasta. E le percussioni un giorno non solo saranno una presenza fissa ma domineranno i programmi delle sale da concerto…

Spesso si dice che il Novecento è stato il secolo delle percussioni. Dalle “retrovie” delle orchestre hanno guadagnato un ruolo diverso fino a passare in primo piano. Quale è stato il motivo?

Il ritmo è l’elemento più spiccato delle percussioni. E se il ritmo è anche una delle componenti base della musica, è solo da Stravinskij in poi che ha acquisito una dimensione così marcata, da protagonista. Le percussioni poi possono essere anche canto e colore e si sono rivelate una miniera per i compositori che hanno lavorato sul timbro. Ma la verità più profonda è forse che nelle percussioni c’è una tensione tale da diventare un linguaggio a sé. È una cosa che mi dicono sempre i compositori. In molti casi si tratta di scrivere senza note. Una cosa estremamente difficile: senza melodia, senza armonia… Mi dicono di essere riusciti a trovare qualcosa oltre le note.

Quali sono invece le linee di sviluppo più promettenti per il futuro delle percussioni?

Ci sarà prima di tutto un’accelerazione vertiginosa sotto il profilo tecnico. Già oggi ci sono ragazzini che suonano cose ritenute impossibili. Sotto il profilo tecnologico, una delle linee di espansione sarà lungo l’incontro con l’elettronica. Specularmente, ci sono gli strumenti non convenzionali. Ha iniziato Cage con i barattoli di latta. Tan Dun fa intonare note con due sassi e suonare l’acqua.

Si può suonare tutto?

A dicembre ho realizzato un set fotografico e video per una grossa azienda di cucine, che mi ha messo a disposizione di tutto. Sono usciti suoni incredibili e meravigliosi. Il suono cambia da marca a marca, sa? Ci sono insalatiere che hanno un suono eccezionale. Dai sassi all’acqua, dal bambù all’acciaio inox, è tutto interconnesso. Ogni materiale ha una radice profonda. Ed è la cosa che mi piace di più.

A Milano suonerà un classico del repertorio come Rebonds B di Xenakis e trascrizioni da Piazzolla, accanto a brani di autori poco noti al grande pubblico come Bocca, Reifeneder, Ishii. Quale è il filo che li lega?

Io non credo che la musica debba per forza essere famosa. Certo, conoscere un’opera è utile, così come avere una preparazione musicale in generale. Nei programmi non scelgo un nome solo perché noto ma seleziono i brani che penso possano essere i più adatti rispetto a ciò che voglio esprimere. Vorrei che tutti i miei concerti siano un evento. La gente non ricorderà l’autore ma l’emozione: se poi questa cambiasse qualcosa nella loro vita, nel lavoro, nella famiglia, il mio obiettivo sarebbe raggiunto. La mia musica vuole essere un messaggio che aggiunge bellezza alla vita degli altri. Non voglio studiare una musica per anni per poi condividerla con poche persone. Allora mi interrogo come fare a portare la musica classica a una massa che ora ha solo il pop o il rock. Questo non significa che io mi metta a suonare cross over o musica pacchiana. La qualità non è derogabile.

Da questo punto di vista le percussioni sono un mezzo privilegiato? Si parlava di suonare pentole e insalatiere… non è quello che fanno i bambini? C’è un ritorno alla dimensione del puro gioco che è esperienza del mondo: ciò che rende grande l’infanzia e che si perde crescendo.

Sì, c’è un privilegio: eppure dico che possono farlo tutti i musicisti senza distinzione e anzi c’è chi già lo fan, sempre mantenendo la propria identità. Ognuno nasce con un talento, il mio è quello di comunicare attraverso il linguaggio che mi è stato donato. A mille, duemila, diecimila persone? Non sono mai abbastanza. Freddie Mercury diceva: “Io non voglio essere famoso, io voglio essere una leggenda”. Lo sarò anch’io.

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