lunedì 15 gennaio 2024
La Galleria Borghese presenta il periodo italiano del fiammingo: studiava le sculture non solo per imitarle ma per dare loro vita con disegni e dipinti
Rubens, “Due studi di ragazzo dallo Spinario”, 1601

Rubens, “Due studi di ragazzo dallo Spinario”, 1601 - British Museum

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Da alcune settimane in Italia sono state allestite due mostre che hanno per protagonista Rubens. La prima ha aperto a settembre a Mantova, dentro Palazzo Te, ovviamente in rapporto con Giulio Romano, ovvero con colui che proiettò Raffaello in un’aura di grandezza che esprime valori di forza, monumentalità, dominio della forma che incarnano a pieno titolo la magniloquenza rinascimentale. Curata da Raffaella Morselli, fin dall’inizio definisce Rubens «il colto umanista universale» (catalogo Marsilio Arte). Mentre questa mostra chiuderà i battenti a fine mese, un’altra, apertasi a metà novembre a Roma, negli spazi della Galleria Borghese, si prolungherà fino a metà febbraio per studiare, a cura di Francesca Cappelletti, che dirige il Museo, e di Lucia Simonato, l’“effetto Pigmalione” ovvero il potere di Rubens di rivitalizzare nel disegno e nella pittura la scultura a Roma.

Due mostre “combinate” in un certo senso, sia per le reciproche collaborazioni e sia perché le città che le ospitano furono quelle dove il fiammingo mise a punto il suo stile e la sua poetica. Ora, come viene anche sottolineato nel catalogo della Galleria Borghese (Electa), quello che prende forma in entrambe le esposizioni è una sorta di discorso etico dove Rubens proietta sull’antico la sua concezione dell’arte come specchio di una umana grandezza perduta, dunque di una sostanziale caduta dalle condizioni di perfezione e di eroicità a cui il suo riferimento ai classici ci rimanda. Su questo indagò tre anni fa al Getty di Malibu la mostra Rubens. Picturing Antiquity.

Come notano le curatrici «la statuaria antica può essere la via di un nuovo naturalismo, ma è necessario sapere come selezionarla». Se sia, come sosteneva Giuliano Briganti, “l’archetipo del Barocco”, o un genio dove quello che poteva essere una frattura diventa invece una saldatura più resistente fra due epoche dove, soprattutto per gli sviluppi della scienza e della cosmologia, cambia la percezione che l’umanità ha di sé stessa e si manifesta una sorta di “eccentricità” o di “marginalità” dell’uomo nell’universo; ovvero, se sia Rubens – come scrisse nel 1951 Longhi di Caravaggio – un portiere di notte del Rinascimento o viceversa l’artista che annuncia l’avvento del Barocco (mentre Bernini è ancora un adolescente), può anche essere una disquisizione di futile accademismo.

Particolare di “Cavaspina”, XVI secolo

Particolare di “Cavaspina”, XVI secolo - © ph. Luciano Romano 2020/Galleria Borghese

Si tratta semmai di comprendere come una poetica di per sé “anticlassica” come quella del naturalismo-realismo caravaggesco possa legarsi, attraverso l’antico, alla grandezza morale che Rubens interpreta nelle sue forme (e nei suoi soggetti) rendendosi libero proprio con l’invenzione dell’effetto Pigmalione a cui rimanda la mostra romana. Giustamente, è questa la chiave di volta di una rassegna che non intende isolare in modo comparativo i dettagli o le strutture che Rubens riproduce studiando le sculture antiche, ma vuole entrare in un metodo che si riassume nell’espressione “sovrapporre e mutare” (Cappelletti). Approdato verso il 1600 a Venezia, dove ovviamente prenderà visione dei grandi del Cinquecento, Tiziano Veronese e soprattutto Tintoretto; di lì trasferitosi a Mantova nel 1601, dove diventerà il pittore di corte dei Gonzaga, Rubens viene inviato da Vincenzo I a Roma perché studi la grande arte del passato e gli sviluppi recenti, e – a parte una tappa spagnola lunga circa un anno – nella Città Eterna troverà tutto quello che gli serve per nutrire il suo genio.

Se dovessi dire dove si vede in modo evidente la poetica di Pigmalione, che aspira a rivitalizzare la scultura sciogliendola dalla sua marmorea freddezza, è nel confronto fra la statua dello Spinario del XVI secolo, in marmo bianco, copia del bronzo conservato ai Capitolini, e il disegno di Rubens a matita rossa, con interventi di biacca e guazzo grigio per lo sfondo, che raffigura l’originale nella sua stessa posa con lievi variazioni e accanto il medesimo, ma con la testa girata verso lo spettatore. È questo il metodo indicato dalle curatrici della mostra come studio condotto direttamente sulla scultura ma con quella libertà interpretativa che non è più imitazione bensì inventio. La questione è decisiva perché in questo effetto di “imitazione interpretativa” si può cogliere, io credo, il momento di maggiore prossimità di Rubens con Caravaggio, che il fiammingo molto stimava (fu lui il tramite dell’acquisto della tela rifiutata che rappresentava la Morte della Vergine, e soltanto un occhio libero da precetti dogmatici poteva cogliere all’istante la rivoluzionaria lettura che il lombardo dava di un tema che appartiene all’iconografia cristiana fin dal primo Medioevo, ma senza tradire il messaggio sacro anzi calandolo in una epoca storica dove il realismo diventa proprio questa trasformazione del reale in oggetto di vivente verità).


C’è un altro punto di tangenza fra Rubens e Caravaggio: la vena neostoica, che il lombardo interpreta con una “riduzione” dei mezzi pittorici. Ma ciò che rende entrambi i pittori espressione di una storia che viene dall’umanesimo rinascimentale, distinguendosi per la libertà individuale nella definizione dello stile, è una chiarezza etica desunta anche questa dagli antichi: in mostra a Roma, nella sezione “Rubens e la storia”, alcuni disegni dedicati a Seneca: il "filosofo morente", che riprende la scultura del II secolo al Louvre (non esposta), mentre ci viene presentata la tela uscita dalla Bottega, proveniente dal Prado. E del resto anche il foglio a penna e inchiostro che presenta il Busto dello Pseudo-Seneca non trova confronti in mostra, per quanto se ne potessero forse avere senza troppe difficoltà. Questi accostamenti fra disegno e scultura – considerando che Rubens fu a Roma nel 1601 e ancora, dopo vari spostamenti, fino al 1608 quando rientrò ad Anversa – possono far pensare che sull’antico il pittore abbia avvertito consonanze col modo da cui Caravaggio partiva integrando l’esecuzione dal modello e dal vero con altre fonti, come la statuaria classica, vedi la Madonna dei Pellegrini che fa riferimento al modello classico romano (la Tusnelda di Villa Medici).

Per l’ispirazione da modelli statuari che Rubens rilegge secondo quel suo “naturalismo” colto, la vitalità carnale che egli restituisce al freddo marmo può persino congiungere la sua ricerca a Michelangelo, a Caravaggio e a Bernini: può essere, per il Buonarroti, il dettaglio della mano della Vergine che affonda le dita nel corpo del Cristo nella Pietà Vaticana; o ancora, per il Merisi, la mano della Madonna che stringe il bambino grassottello e enorme nella tela di Sant’Agostino; o, infine, la mano di Plutone nella carne di Proserpina, con la scultura del ratto eseguita da Bernini quando il fiammingo aveva già lasciato Roma. La morbidezza del tocco che quasi rende vivo il dettaglio è appunto l’effetto Pigmalione che Rubens avrà meditato anche cogliendo riferimenti alla statuaria nei dipinti di Caravaggio; un effetto che, come si dice nel catalogo, con Duquesnoy a Roma dal 1618, prepara l’“invenzione” del putto moderno anche nella scultura, non più il putto idealizzato, ma quello che nei polsi, nelle ginocchia, nel mento e in altri giunti di articolazione del corpo mostra fossette, pieghe e incavi che sono un segno del marmo reso vivo come la carne (dove i riscontri vanno a Rubens e Jordaens e si ritrovano sublimati fino all’apoteosi con Bernini).

Analizzando in modi più lenticolari la stessa pittura caravaggesca si vedrà che questo “naturalismo” che sembra restituire, come Pigmalione, la vita a ciò che è duro come sasso, non è soltanto frutto di una seduzione della carne, ma una vera scelta etica e spirituale. Come se improvvisamente scultura e pittura potessero rivelarsi davvero arti sorelle nel rendere il mistero della vita, Nella seconda metà del Seicento il teorico francese Roger de Piles, nel Dialogue sur le coloris (1673) condannava Poussin perché la sua pittura aveva fatto della carne una pietra e celebrava Rubens perché aveva saputo rendere alla pietra della scultura la verità della carne. E questo accade, appunto, perché la selezione di parti delle sculture tradotte in disegno e ricomposte nell’intero mostrano sempre una sostanziale differenza dalla semplice imitatio.

Quel “movimento” che scioglie la stessa imitazione in espressione. Adriano Aymonino nel catalogo afferma che per questo «è corretto chiedersi in che modo l’approccio radicalmente nuovo di Rubens allo studio delle sculture classiche influenzò la tradizione rappresentativa dell’epoca barocca» (Bernini, per esempio). Il fiammingo fu informato di due iniziative editoriali romane, la Galleria Giustiniana (1631-37) e i Segmenta nobilium signorum et statuarum, dove appunto la sua inventio veniva accolta e sfruttata (1638). E progettava fin dal 1629 un nuovo soggiorno italiano nella Roma pontificia, che causa la peste del 1630 non si realizzò. Sentiva il bisogno di riscuotere una fama che sembrava rimanere limitata, nonostante all’epoca le sue idee circolassero molto nei cataloghi delle stampe: il biografo Bellori non lo amava e lo accusò di non essere stato capace di “italianizzarsi” (Bernini però ne aveva tessuto l’elogio durante il viaggio a Parigi) e in seguito anche la Storia pittorica del Lanzi negava l’importanza della sua opera negli sviluppi dell’arte italiana.

È difficile forse immaginare Rubens come un salutista del nostro tempo. Potrebbe sorprendere però sapere che sulle pareti del suo atelier aveva scritto la sentenza di Giovenale “mens sana in corpore sano”. Le sue letture degli antichi erano ampie e fondate sul neostoico Giusto Lipsio che partivano da Seneca, al punto da tradurne l’idea anche sul piano tecnico con un’etica, che reagiva alla convinzione che dopo gli antichi vivessimo una millenaria decadenza e incapacità di ritrovare le loro virtù. Tutto questo, in poche righe, è dato in un frammento sopravvissuto alla perdita del Taccuino teorico di Rubens nell’incendio del 1720 a Parigi. Uno stoicismo a cui, peraltro, si potrebbero ricondurre anche i temi del martirio, del sacrificio e della essenzialità dei mezzi pittorici in Caravaggio.

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