sabato 19 novembre 2011
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«Mentre il mondo stava a guardare», quasi un milione di persone venivano trucidate nella «mattanza dei cento giorni». Accadde in Ruanda, era il 1994. Quella volta, però, i massacri furono qualificati come crimini internazionali e non restarono impuniti. «È stato così che ho guardato negli occhi la crudeltà di assassini spietati e la sofferenza delle loro vittime, ma anche la desolazione e il senso di fallimento di chi si è pentito». Silvana Arbia, per oltre vent’anni magistrato in Italia, dal 1999 al 2008 è stata procuratore presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, istituito dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Da allora non ha più smesso di occuparsi di giustizia a livello internazionale. "Mentre il mondo stava a guardare" (Mondadori, pagg. 204, euro 17.50) è un libro popolato di spettri in carne e ossa. Come Pauline Nyiramasuhuko, ministro della Famiglia e prima donna accusata di genocidio e svariati crimini contro l’umanità, compreso lo stupro; il sacerdote Athanase Seromba, responsabile del massacro di circa duemila tutsi intrappolati nella sua chiesa; e poi i giornalisti che incitavano a una pulizia etnica spietata. È anche merito di quei processi se oggi il Ruanda procede, pur tra contraddizioni e qualche rigurgito di violenza, verso una faticosa normalizzazione.Perché questo libro a quasi vent’anni dai fatti?«Il mio vuole essere un post it per non dimenticare. Il genocidio che si è consumato nel 1994, il primo riconosciuto e giudicato come crimine internazionale, non è stato una calamità naturale, ma una tragedia annunciata. I suoi ideatori hanno avuto tutto il tempo di prepararlo, programmarlo e scatenarlo in ogni angolo del Paese. Poteva essere evitato, ma non si fece nulla o non si fece abbastanza. Una delle ragioni che mi hanno spinta a scrivere è quella di aiutare a riconoscere i primissimi segnali di una strage che sta per compiersi. Se siamo coscienti delle ragioni che portano a commettere un genocidio e di quanto gravi possano esserne le conseguenze, possiamo anche sperare che in futuro il mondo non resterà con le mani in mano».Prima di allora, però, non c’era una corte permanente, com’è oggi il tribunale dell’Aja. Può essere un deterrente?«Sapere che la comunità internazionale possiede strumenti, indipendenti e imparziali, per non lasciare impuniti i responsabili delle atrocità può essere una forte arma di dissuasione. Oggi, inoltre, abbiamo a disposizione nuove conoscenze che ci permettono di cogliere i segni premonitori delle pulsioni che spingono al genocidio. Possiamo intervenire in tempo per evitarlo, ma a condizione che la maggior parte di noi ne sia consapevole».Le sue pagine offrono resoconti asciutti e terrificanti. Come vi ponevate davanti a quelle testimonianze?«I sopravvissuti riferivano scene di una violenza spaventosa. Ricordo, tra le molte, quella in cui si riferiva di una donna che stava allattando i suoi due gemelli quando con un colpo di machete i miliziani le tagliarono di netto i bambini dal seno. "E adesso, allatta se puoi!" le urlò a quel punto con disprezzo Pauline Nyiramasuhuko, all’epoca ministro della Famiglia e della Promozione femminile. Ogni volta che ci sembrava di aver oltrepassato i limiti del sadismo, dovevamo ricrederci perché quella era, purtroppo, la verità».Come si fa, davanti a tanta calcolata crudeltà, a giudicare con equità?«È un lavoro duro e difficile. Può essere ripagato solo dalla soddisfazione di aver contribuito a ricostruire una verità a lungo negata. In questo compito ho avuto al mio fianco una squadra formata da colleghi di eccezionale valore. Venivamo da Paesi e culture giuridiche diverse, ma abbiamo costituito un’équipe unita da uno straordinario senso di solidarietà».Con quali occhi, specie noi europei, dovremmo guardare il dramma ruandese?«Il genocidio del 1994 non fu soltanto una tragedia africana, ma una tragedia dell’umanità intera. Dopo anni di discussioni e ricerche è assodato che quelle stragi potevano essere evitate. A far precipitare le cose contribuirono diversi fattori e tutti si sarebbero potuti contrastare. L’impunità accordata agli estremisti hutu, che già prima del 1994 si erano lanciati in una campagna di violenze e odio; l’assenza di iniziative politiche di isolamento contro i regimi accentratori come quello ruandese, che pur rallentando i processi democratici nel proprio Paese godeva di appoggi diretti o indiretti da parte della comunità internazionale; la vulnerabilità di una popolazione stremata dalla miseria, oppressa e bisognosa di riscatto. Tutto questo era sotto gli occhi di tutti. Ma noi siamo rimasti a guardare».

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