giovedì 21 gennaio 2010
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«N on mi sento di far parte integrante della vita moderna. Il mio vero mondo va a ritroso nel tempo, risale all’età delle catte­drali ». Questa confessione auto­biografica di Rouault – che am­micca anche alla sua genesi arti­stica primigenia, quella di mae­stro restauratore di vetrate medie­vali – mi permette di svolgere una libera e modesta riflessione per­sonale su questo artista, al quale sono dedicate ben più importanti e accurate analisi ermeneutiche. Egli, infatti, con la sua opera in­carna alcuni elementi capitali di un’antica tradizione che non te­meva di inserire nei propri Statuti d’arte una di­chiarazione co­me quella che leggiamo nel programma degli artisti se­nesi del Tre­cento: «Noi sia­mo manifesta­tori agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolo­se operate per virtù della fe­de ». Rouault ri­vela la profon­da sororità tra arte e fede, tra immagine e i­cona, tra sim­bolo ed epifa­nia, tra illustra­zione ed esege­si. Non per nul­la la sua vita e la sua opera fu­rono ribaltate e fecondate dal­l’incontro sia con uno scrit­tore fieramente religioso come Léon Bloy, sia con un pensa­tore ininterrot­tamente in marcia sul cri­nale tra filoso­fia e teologia come Jacques Maritain. Anzi, le sue più pos­senti litografie sono scandite da titoli emblematici, come l’indi­menticabile Miserere che intreccia male e liberazione, peccato e re­denzione proprio come nell’omo­nimo Salmo 51 (50) assegnato dalla tradizione al re artista, Davi­de. Ancor di più, direi che tutta la sua opera – prescindendo dal ri­mando esplicito al codice sacro – è costantemente una celebrazio­ne dell’Incarnazione, il centro teologico del cristianesimo. Infat­ti, le sue prostitute, i suoi clown, i giudici, gli orrori della guerra, gli stessi «fiori del male» non fanno che trasformare in teofania anche i bassifondi della storia, sulla scia di quel Cristo che non era venuto per i sani ma per i malati, che an­dava in cerca di chi era perduto, che non temeva la cattiva compa­gnia degli ultimi, divenendo ospi­te di quell’«albergo dei poveri» che è la regione della notte, dell’e­marginazione, del rifiuto. Per que­sto la figura più amata, sulla quale il pittore parigino ricama le sue più intense e tormentate icono­grafie, è quella del Christus pa­tiens che trascolora nelle fisiono- mie dei miserabili della storia. Proprio per questo anche un teo­logo, com’è chi scrive, non ha po­tuto far a meno di avere sulle sue pareti domestiche una litografia rouaultiana. E qui entra in scena un altro elemento suggestivo che connette arte e spiritualità, quello del colore. Sappiamo che, se per Guitton il colore è lo svelamento supremo della luce, per Goethe esso era piuttosto la sofferenza della luce che si frange e rifrange nello spettro cromatico perdendo la sua unità «simbolica». Ebbene, Rouault ha scelto una via sconcer­tante, quella del nero che a prima vista sembra essere non solo la cancellazione del colore, ma della stessa luce. In realtà, il suo è un ossimoro visivo perché la sua è u­na luminosità notturna, è la luce che si an­nida nel grem­bo della tene­bra fonda. In lui il nero di­venta non as­senza, ma la nuova sintesi dei colori per­ché, come di­ceva de Musset, i «canti più bel­li sono i canti più disperati». In questa linea si ritrova, allo­ra, il cuore stes­so dell’Incarna­zione, la pas­sione e la mor­te del Figlio di Dio. Un evento che è di sua na­tura anch’esso un ossimoro (Dio non può morire perché eterno); eppu­re, esso si fa realtà divenen­do «scandalo e stoltezza» per la logica forma­le, come dirà san Paolo, ma che è «potenza e sapienza» di­vina, perché è proprio entran­do nel dolore e nella morte che Dio può redi­mere la cadu­cità e il male della storia. Per que­sto la cultura delle origini cristia­ne, a partire dal III secolo, non te­mette di immaginare per Cristo un viso deforme, di accogliere nel suo profilo il nero della bruttezza, sulla scia del Servo sofferente can­tato da Isaia: «Non ha apparenza né bellezza per attrarre il nostro sguardo, non splendore per poter­ne godere» (53, 2). Lapidario era stato Origene: «Gesù era piccolo, sgraziato, simile a un uomo da nulla», appunto ai clown e agli e­marginati sociali di Rouault. Ep­pure, «è per le sue piaghe che noi siamo stati guariti», continuerà I­saia (53, 5), facendo balenare l’al­ba della Pasqua quando, «dopo il suo intimo tormento vedrà la lu­ce… e il giusto mio Servo giustifi­cherà molti» (53, 11). Cantore dell’Incarnazione, Rouault merita forse la definizione che spesso gli attribuiscono i manuali: «Il mag­gior pittore d’arte sacra del Nove­cento ». In realtà, la sua è, però, ar­te allo stato puro, che non registra e rappresenta il vi­sibile sottoponen­dolo a decifrazioni con strumenti e­strinseci filosofici o teologici o pie­gandolo ai canoni della catechesi o dell’apologetica. Egli nel visibile, pesante e carnale, tenebroso e opaco, cerca invece di in­travedere l’Invisi­bile che vi è custo­dito. Un po’ come affermava Her­mann Hesse nel suo Klein e Wagner: «Arte si­gnifica: dentro a o­gni cosa mostrare Dio». «Il duro mestiere di vivere» (1922) Georges Rouault, «Cristo in croce» (1936), acquaforte e acquatinta. Sotto: l’artista francese al lavoro
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