giovedì 5 ottobre 2023
A 30 anni da “Va’ dove ti porta il cuore” la scrittrice affronta i temi chiave dell'esistenza. In un trittico di letterescritte da una donna alla figlia adottiva, a quella naturalee al marito
La scrittrice Susanna Tamaro

La scrittrice Susanna Tamaro - ANSA

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Raccontare tre volte la stessa storia, persino con salomonica ripartizione (ottanta pagine per ciascuna delle tre narrazioni), eppure non ripetersi mai. Anzi, sorprendere di continuo il lettore, che a pagina 80 credeva di aver compreso tutto e invece riparte, e ogni volta scopre che un’altra verità era più in profondo. È questa la delicata magia di Il vento soffia dove vuole, l’ultimo romanzo di Susanna Tamaro (Solferino, pagine 240, euro 17,00), in libreria dal 6 ottobre, trent’anni dopo quel Va’ dove ti porta il cuore che la rese famosa e tra le autrici italiane più tradotte nel mondo.

L’unico personaggio presente nel romanzo epistolare, Chiara, approfitta di sette giorni di solitudine invernale nella calda intimità della casa di campagna per scrivere tre lettere, la prima alla figlia adottiva Alisha, innatamente spirituale e ora in viaggio con il fidanzato tra i bianchi silenzi della Finlandia, la seconda alla figlia naturale Ginevra, problematica e scontenta, fuggita con le amiche nella mondana Cortina, l’ultima al marito Davide, uomo solido e trasparente come i ghiacci che è andato a scalare.

Girato lo smartphone a faccia in giù sul tavolo e recuperate le «calde e vecchie candele» nel cassetto che le conserva per quando il temporale fa saltare la luce («Mi sono resa conto di come tutto ciò che ha costruito la nostra umanità, nel corso del tempo, sia nato proprio così, sotto la luce traballante di una fiamma. Un piccolo cuore caldo e intorno il grande buio»), Chiara scrive alle persone più importanti della sua vita ripercorrendo per i tre destinatari il loro passato vicino e lontano. Sono lettere d’amore intenso, espedienti con cui Chiara scandaglia il vero senso dell’esistenza umana, conducendo i suoi familiari (e noi lettori) in un viaggio mai urlato nei grandi temi, oggi seppelliti sotto il confuso vociare di mode e militanze.

Il vento soffia dove vuole, ha ragione il titolo (il Vangelo di Giovanni da cui è tratto continua: ma non sai dove viene né dove va), così non c’è nulla di scontato nella trama, che avvince il lettore tra pacate considerazioni e improvvise accelerazioni (colpi di scena), alternando commozione ad umorismo, tenerezza a parole crude, che non fanno sconti ma nemmeno condannano. Si racconta del destino che fece incontrare Chiara e Davide, un destino già deciso da sempre, come negli aeroporti si attende un viaggiatore sconosciuto «reggendo in alto un cartello con sopra scritto un nome: Mister Tal dei Tali. Miss Tal dei Tali. Forse la parte immateriale di noi gira con un cartello simile fin dall’istante in cui veniamo al mondo». E si racconta del prima, dell’infanzia di Chiara, così agiata e infelice, perché a dettare le regole non sono l’opulenza e il tanto osannato potere, ma l’amore, l’unica semplice realtà che determina il mondo. Per questo Alisha, la figlia adottata in India, nata nella spietatezza della strada, «secondo i canoni più trivialmente comuni» avrebbe dovuto essere infelice – scrive Chiara – «mentre io avrei dovuto essere serena e vincente», ma le cose sono andate all’opposto. Perché Chiara, nata nel 1958 da famiglia aristocratica di Ferrara, capisce «quasi subito di essere solo una formalità espletata», l’erede, un passaggio obbligato. E quando «l’adorabile bambina» si ribella al suo destino di clone, agli occhi della madre diventa indifferente, «ero uscita dal tracciato prestabilito». Il prezzo della libertà.

Poi si racconta anche la morte e il suo momento, che non sempre corrisponde a quello in cui chiudiamo gli occhi («Quando era iniziata quella marcia nel corpo della nonna? Forse quando aveva scoperto la menzogna che aveva distrutto la sua vita? O ancora prima, quando non aveva avuto altra scelta che sottomettersi? Quando iniziamo a morire dentro?”). E si riflette sui figli di pancia e i figli di cuore, che sono amore nelle diverse declinazioni, non pretesti per fare ideologia: Ginevra, proprio la figlia nata dal corredo genetico di Chiara e Davide, le è quasi aliena, attratta com’è dalle lusinghe di un mondo iperconnesso e allucinato. Ginevra che certamente si chiederà un po’ sprezzante il senso di scrivere una lettera nell’epoca dei cellulari, cioè del «continuo scambio di informazioni non molto diverso da quello delle formiche che, incontrandosi, si sfiorano le antenne». Eppure proprio l’ostica Ginevra sotto la scorza conserva un cuore che batte e proprio a lei Chiara affida il senso della vita, quella bussola che alla nascita non ci viene fornita: «Alla fine penso che l’unico grande spartiacque che domina il mondo sia questo: chi è consapevole del male e cerca di contrastarlo e chi, invece, ha come unico orizzonte il proprio tornaconto».

Potenti anche le pagine in cui Tamaro affronta vicende onerose, come l’aborto vissuto da Chiara e mai raccontato nemmeno al marito (riferito con pathos alla sensibile Alisha, accennato in una riga a Ginevra, ripercorso a cuore aperto nella lettera a Davide), o il tema della morte dei genitori, e il mantra odierno della perfezione ossessivamente cercata e sempre ingannevole («Mi fa pensare alle scatole dei cioccolatini di una volta; ne ricevevi una molto grande, pensavi ce ne fossero tantissimi anche se già il peso avrebbe dovuto insospettirti, ma solo quando la aprivi ti rendevi conto che i cioccolatini erano davvero pochi perché una griglia di plastica li separava gli uni dagli altri»). E poi c’è l’impegnativa questione del bene e del male, così radicata nella bella persona che è Davide: «La vita non è un pomeriggio in altalena, non ci si barcamena tra quello che ci fa più comodo, bisogna scegliere da che parte stare e solo questo ci rende davvero umani».

Infine il mistero più affascinante, il miracolo scientifico della nascita, quella corsa spasmodica di «trecento milioni di spermatozoi, di cui solo un migliaio riesce a raggiungere la tuba, tutti gli altri muoiono nel tentativo di trovare la strada», aveva studiato sui testi universitari la giovane e ancora agnostica Chiara. A quel punto l’ovulo, «che è ottantacinquemila volte più grande dello spermatozoo», plana «come una meravigliosa navicella spaziale» che imbarcherà un solo passeggero, lo spermatozoo vincente, «chiudendo tutti i boccaporti perché quello, e non un altro doveva salire a bordo. Prestazione atletica? Casualità? Legge del più forte?». Il risultato comunque siamo noi, ciascuno e nessun altro. «In questa sorta di arrembaggio si nasconde qualcosa di infinitamente più complesso e insondabile? – si interroga Chiara/Tamaro –. E se in quell’atto segnato dall’accettazione o dal rifiuto fosse scritto il codice dell’anima?». Tutto ciò che sarai e non sarai dipende da quell’incontro avvenuto in un caotico parapiglia di minuscoli girini, ma il caos è solo apparente: «La vita ti chiama e tu rispondi, sembri apparire dal nulla ma in realtà, dentro di te, sono già scritti migliaia di anni». Venendo alla luce ne riceviamo appena una manciata.

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