sabato 30 luglio 2022
Gianni Nocenzi, fondatore con il fratello Vittorio della band, che festeggia 50 anni dall’uscita del primo disco, racconta di quelle stagioni in cui «il Noi era prevalente sull’Io»
Una vecchia foto di Gianni Nocenzi del Banco del mutuo soccorso

Una vecchia foto di Gianni Nocenzi del Banco del mutuo soccorso

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In questo 2022 la Sony, con un’operazione dal titolo Italian prog rewind, ha pensato di creare un progetto importante dedicato al genere. Già nello scorso giugno ha infatti rieditato sei album di Area, Premiata Forneria Marconi e Banco del mutuo soccorso, nell’occasione della ricorrenza dei cinquant’anni dalla loro prima pubblicazione. Il progetto Italian Prog Rewinds svilupperà anche nei prossimi mesi, con dei live e con l’atteso nuovo disco del Banco. A novembre, ci sarà la celebrazione del catalogo della Cramps, fondata da Gianni Sassi, che annovera nel suo cast artistico gli Area, Demetrio Stratos, Arti e Mestieri, Eugenio Finardi, Alberto Camerini, John Cage e tanti altri. Questa parte finale dell’iniziativa sarà accompagnata da una serie di eventi celebrativi dal vivo, oltre alla pubblicazione di alcune rarità discografiche. Vera novità per i tanti appassionati e collezionisti del vinile sarà la pubblicazione in bellissime versioni colorate “splatter” di alcuni capolavori Prog fra cui Il Volo, Giro di valzer per domani, Quella Vecchia locanda, Darwin!, Il Salvadanaio, Storia di un minuto, Per un amico, Caution radiation area, Arbeit Macht frei e Maledetti.

Nella prima metà degli anni Settanta l’Italia ha vissuto una delle sue stagioni musicalmente più vive, quella del rock progressivo. Per parlare di quegli anni formidabili abbiamo incontrato uno dei fondatori del Banco del mutuo soccorso, Gianni Nocenzi, pianista, compositore e anima del gruppo di cui a giugno sono stati rieditati i primi due dischi Banco del mutuo soccorso - Il salvadanaio e Darwin! del 1972.
Partiamo dal contesto musicale e sociale. Quello di cinquant’anni fa era un altro mondo, cosa ricorda dell’atmosfera di quel periodo?
Sì era un altro mondo, non spetta a me dire se migliore o peggiore. C’erano peculiarità differenti e di certo il contesto era diverso e dunque quello influiva anche sul “testo”. All’inizio di quegli anni Settanta ci fu una congiuntura storica particolare. Si respirava nell’aria qualcosa che rompeva con tutto ciò che c’era stato prima. Non stiamo parlando solo di arte, ma di quel tipo di musica unita ad altri elementi di costume, che avevano senso solo dentro alla collettività. Era tutto molto diverso dal mondo di oggi, in cui ti capita di prendere una metropolitana dove tutti sono reclinati sul proprio telefonino. Prima c’era una prevalenza del Noi rispetto all’Io.
Il progressive è stato molte cose. Dalla rottura della forma canzone al concetto di suite, all’unione quasi naturale tra classica e rock. Mi viene in mente il riff di R.I.P. ( IlSalvadanaio), che come la musica degli affetti mima la serialità marziale dei soldati che avanzano e indietreggiano. In questo il Banco era un gruppo molto completo.
Credo che questa sensazione sia data anche dalla formazione particolare, con due tastieristi, con me che suonavo un pianoforte acustico. Questo ha portato una caratterizzazione del gruppo che permetteva la composizione di linee complesse con un approccio spesso mutuato dalla musica classica. Lo potevamo fare perché avevamo questa varietà nella tavolozza timbrica.
Anche nei testi però, perché nel vostro caso metricamente risultavano come letteratura musicale inscindi- bile. Certo era merito di Francesco Di Giacomo, ma si sente che dietro c’è un lavoro corale di cesello...
Questa è una cosa che mi gratifica, perché in effetti il lavoro era rigoroso nel far suonare i testi partendo dall’eufonia. Il lavoro sulla sillabazione era importante per noi, unire l’italiano alla pulsione ritmica del linguaggio rock. Il lavoro nostro, e l’enorme capacità di Francesco come autore di testi, permetteva anche nei contenuti di porre uno sguardo sulla società. Per esempio in Darwin! si volevano raccontare le turbolenze e il disagio di chi si sente inadeguato nella società, in quel mondo percepito come nuovo.
Negli anni Ottanta molte cose cambiarono. Perché?
C’è stato il ritorno dal Noi all’Io, il famoso “riflusso”. Dalla seconda metà degli anni Settanta già la spinta gioiosa del prog, di “gioia e rivoluzione” come dicevano gli Area, era finita. Ci fu un repentino ritorno alla semplificazione, la voglia di uscire dai problemi tramite scorciatoie e anche la concezione della musica e delle arti non come mezzo per riflettere ma come evasione e intrattenimento.
Ma non crede che oggi, con l’informatica alla portata di tutti, ci possa essere una nuova stagione di libertà artistica da diffondere tramite internet?
Sì, infatti penso che il problema non sia la mancanza di pubblico, quanto il fatto che manchino le strutture che operano in un certo modo, ecco perché questo progetto fa onore alla Sony, che dimostra con Italian prog rewind che si può puntare ancora a un pubblico che chiede di più alla musica, con strategie che si sviluppano sul medio e lungo periodo, come richiedono le cose fatte bene e un certo tipo di proposta musicale. L’unica cosa che spero è che il prog vada sempre contro il pensiero unico e che continui a cambiare, perché questo era il nostro spirito, progressivo proprio nella dinamicità di contaminazione con il presente, di evoluzione del linguaggio, del superamento perenne delle Colonne d’Ercole.
Quindi lei auspica un prog con l’autotune?
Cos’è? Una provocazione?
Certamente.
Bene, allora ci sto. Se parliamo da un punto di vista di suono, l’importante è che ci sia un pensiero musicale alla base. Tutte le novità tecnologiche che sono uscite in questi decenni, come il vocoder, il minimoog, l’harmonizer e gli altri, hanno avuto un senso quando sono state usate con un concetto estetico di fondo, con un’idea compositiva. Quindi anche l’autotune può essere uno strumento utile, a patto che non sia usato unicamente per questioni di moda, come oggi succede troppo spesso.

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