giovedì 2 luglio 2009
Da Andy Warhol a Michael Jackson, ecco come e perché la cultura di massa domina la società dei consumi
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Qualche tempo fa Adriano Ce­lentano divise il mondo in due: di qua il 'rock' e di là il 'lento'. Un autentico tor­mentone, destinato a separare, co­me in un grande gioco da salotto collettivo, famiglie, gruppi di amici, comunità. Tutti a inseguire l’incasel­lamento, ma con grande indulgenza verso sé stessi: chi non si dichiarava 'rock', anche se aveva sempre ama­to Domenico Modugno o Claudio Baglioni? Il primo al massimo un proto rock, per la sua iscrizione di diritto nel club degli 'urlatori'; e il secondo un post rock, per essere di­venuto a furor di pubblico, l’icona i­taliana del 'pop'. Eccola la categoria, moderna e post moderna, più resistente alle mode, quella che imperversa sulla scena culturale da cinquant’anni, pronta a contagiare tutto quello che può. Perché se la Pop Art ha avuto un ge­nio assoluto come Andy Warhol (quale donna non ha sognato, alme­no una volta, di essere ritratta come Marilyn, alla maniera del pittore a­mericano?) è pur vero che il 'pop' come categoria culturale, non ha trascurato nessun tipo di contami­nazione. E come potrebbe, se la sua radice è appunto nella dimensione popolare? Non era proprio Warhol a indicare nella Pop Art il portato di un consumo di massa, al pari di qualunque altro prodotto della so­cietà di massa? Basta ricordare i suoi 'multipli' delle bottiglie di Coca Co­la o dei barattoli di Campbell’s per cogliere la funzione della cultura 'pop' come linguaggio di una de­mocrazia sociale figlia del boom e­conomico. Altri tempi, si dirà. Forse sì. Ma di si­curo, in questo nostro mondo in cui il nuovo fa una fatica titanica a e­mergere, fa una certa impressione vedere la categoria del 'pop' ina­nellare successi a ripetizione, con­quistando militarmente tanti altri campi, persino quello della politica, immancabilmente vincendo la par­tita con il suo antagonista naturale, il 'classico'. Ma se c’è un dato di fondo che fa da ponte fra le origini del fenomeno e la contemporaneità è certamente quello dell’esplosione della società della comunicazione, con i suoi stilemi e persino i suoi tic. E in questo spazio un ruolo decisivo lo ha assunto la televisione, che ha portato a compimento due paradig­mi: il 'fatto' non esiste se la tv non l’ha fatto vedere, il personaggio non esiste sulla scena pubblica se non ha il suo spazio sul piccolo schermo. Non è in gioco né la credibilità né la forza delle idee. Semplicemente la persona stessa, per divenire 'pop', deve essere 'usata' e 'trattata' dal media per eccellenza, e 'consuma­ta' dal pubblico, al pari di qualsiasi altro prodotto di massa. Detto questo, appare sicuramente più comprensibile come oggi i più grandi fenomeni del 'pop' contem­poraneo abbiano bisogno assoluta­mente della macchina informativa e massmediatica per divenire tali. Si­no al punto che talvolta la stessa narrazione pubblica coincide esat­tamente con il media stesso. E’ il ca­so ad esempio della politica 'pop', in cui la proposta politica lascia spa­zio al racconto popolare, per imma­gini e parole, della vita del leader politico di turno. Si è detto più volte, nei giorni con­vulsi della recente campagna eletto­rale europea, che abbiamo vissuto le prime 'elezioni pop' della storia della Repubblica. Con settimane di inchieste, di lettere private e di nar­razioni pubbliche, di intrusioni inti­me e di repentine smentite, di inter­viste al limite del fantasy e di minac­ce più o meno serie. Tutto attorno alla figura del premier, di sua moglie, delle di lui frequentazioni e delle re­lazioni familiari. Insomma un gran­de racconto popolare in cui, forse per la prima volta, la carta stampata ha cercato di rubare spazio alla tele­visione. Sempre, però, dentro lo schema della 'politica pop'. Le radici di questo fenomeno sono lontane: qualcuno, come il filosofo Maurizio Ferraris le fa risalire persi­no a Sandro Pertini: 'Lui che esulta sugli spalti del Bernabeu, accanto al re Juan Carlos, nella finale del Mun­dial ’82, è un tipico grande esempio di politico pop. Traghettava se stesso dalla lotta partigiana ai campionati di calcio'. Accennata una possibile genealogia italiana, resta il presente, con l’estensione della 'politica pop' in tutto il mondo: da Zapatero a Sarkozy, da Obama a Chavez. Ma ora basta con la politica, e cer­chiamo piuttosto di decifrare la co­struzione dell’icona pop contempo­ranea, in un altro campo, quello a cavallo fra la letteratura e il cinema. Sino a lambire, come qualcuno ha intuito, persino la società e la reli­gione. Di sicuro sono 'pop' il ma­ghetto Potter e il vampiro buono, l’Edward di Twilight. Due autenti­che icone, nate rigorosamente in ambiente anglosassone. Entrambi nati da una saga letteraria, con una forte connotazione fantasy, ma ca­paci di evocazioni di vario genere: dal sociale al religioso. Basti pensare che nel caso di Twilight c’è chi vi ha letto addirittura il tentativo di ripro­porre la storia e l’attualità dei Mor­moni, partendo dall’assunto che l’autrice Stephenie Meyer è appunto una sostenitrice della Chiesa dei Santi degli ultimi giorni. Così come, nel caso del maghetto, la costruzio­ne della saga sembra rispondere alla necessità di riproporre in chiave moderna l’archetipo più antico del mondo: la lotta fra il bene e il male. Dunque, non tutto è ciò che appare. E al di là del fenomeno mondiale le­gato al merchandising, resta l’icona pop a occupare l’immaginario pub­blico, per il tempo necessario a co­struire un impero economico, ma anche a modificare sottilmente il senso comune. Basti pensare alla psicodramma collettivo e globale che va in scena da giorni, dopo la morte di Michael Jackson, l’icona pop per eccellenza dello star system americano. Poi possiamo interro­garci a lungo su chi e cosa siano 'pop' o 'classico' fra Bocelli e Muti, fra 'La dolce vita' e 'Il Divo', fra Sa­viano e Arbasino, fra la botton down e la t-shirt, fra il Mc Donald’s e lo slow food, fra Madonna e il Boss, fra il Suv e la stationwagon, fra il cd e il vinile. Ma alla fine, in mancanza di meglio, ci toccherà augurare lunga vita al 'pop'. Rassegnandoci anche noi forse a cambiare, a divenire un po’ più 'pop' e forse meno 'classi­ci'. Perché il 'pop' ha già vinto, anzi ha stravinto il confronto. Michael Jackson sta lì a dimostrarlo, anche ai più increduli.
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