giovedì 12 marzo 2020
Un saggio di Carmelo Dotolo fa il punto sull’età post-secolare e traccia il panorama di un desiderio di spiritualità svincolata da dogmi e trascendenza. Una sfida per la teologia cristiana
Il ritorno al sacro è una religione senza Dio?

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«Forse ci rimane soltanto l’assenza di Dio. Accettata e vissuta pienamente, quell’assenza è una forza viva, un mysterium tremendum »: le parole accorate di George Steiner, forse il più grande critico letterario degli ultimi decenni, scomparso poco più di un mese fa, fanno da viatico a un saggio appena edito da Queriniana che ha per titolo Dio, sorpresa per la storia. Per una teologia post- secolare (pagine 286, euro 22,00). Ne è autore Carmelo Dotolo, ordinario di teologia delle religioni all’Urbaniana, che prende in esame tutti i più recenti studi filosofici e teologici su quella che il pensatore canadese Charles Taylor ha chiamato “età post–secolare” per riproporre la questione Dio come risorsa ancor oggi in grado di dare risposte alle inquietudini dell’uomo contemporaneo.

Perché la messa in discussione del paradigma della modernità, che portava con sé la liquidazione del sacro attraverso un processo crescente di secolarizzazione della vita, ha sì condotto al ritorno della religione come fattore rilevante per le nostre società, ma con aspetti contraddittori che vanno esaminati. Un altro filosofo che ha segnato gli ultimi decenni, Zygmunt Bauman, ha denominato la religione postmoderna come una “religione minima”, fatta di una spiritualità flessibile, slegata dai dogmi e dalla razionalità che ha distinto la civiltà occidentale. In poche parole, una religione senza Dio.

Ma quali sono i tratti di questa nuova forma di religione? Sostanzialmente si parte da tre riferimenti culturali: la riscoperta delle filosofie orientali, che rappresenterebbero una via meno impegnativa rispetto all’impianto ebraico-cristiano e che unirebbero più pacificamente meditazione e riflessione in un’esperienza religiosa capace di dare sollievo al corpo e allo spirito; il ritorno del politeismo, il quale permetterebbe di spezzare la propensione alla violenza del monoteismo, che ancor oggi spesso presenta il volto del fondamentalismo; infine un nuovo ateismo, in grado di allargare gli spazi a una spiritualità plurale e soprattutto senza Dio. In quest’ultimo caso, emblematico il caso di André Comte-Sponville che parla chiaramente di una “spiritualità atea”, con un’apertura all’infinito e all’assoluto ma negando ogni trascendenza.

Per quanto riguarda il politeismo e il neopaganesimo, sono Jan Assmann, Marc Augé e Salvatore Natoli i pensatori di riferimento; essi attribuiscono al monoteismo una storia segnata dal potere e dalla violenza e denunciano il Dio unico che schiaccia l’uomo. Al contrario, il volto mite del politeismo consentirebbe una leggerezza esistenziale. Scrive Augé: «Il paganesimo politeista non conosce i tormenti della fede e dell’impegno e ignora il legame esclusivo e reciproco fra l’individuo e Dio instaurato dalla tradizione giudaico– cristiana».

Dunque, può guarire le patologie di un monoteismo della ragione e dare vita a una pratica umanistica e atea. Spiega Dotolo: «Il Dio del futuro sembra più simile alla freschezza, giocosità, imprevedibilità di Dioniso. La lezione della nuova mitologia fa la sua comparsa nella religiosità post-secolare accanto alla scoperta delle religioni orientali». Queste ultime, il buddhismo in particolare, presentano «una maggiore aderenza alla domanda di ben-essere e di nutrimento della vita». Sono il sinologo François Jullien (che ultimamente però si è riavvicinato al cristianesimo) e il poeta François Cheng i propugnatori di questa apertura alla forma religiosa asiatica, che sembra detenere credenziali più remunerative dal punto di vista esistenziale.

Alla fine, tutto riconduce a una riflessione sull’esperienza religiosa indipendentemente da una relazione con Dio. L’ha ben scritto Johann-Baptist Metz: «In un’atmosfera benigna per le religioni, viviamo in una sorta di crisi di Dio dalla forma religiosa. Il motto recita: religione sì, Dio no, in cui questo no non è a sua volta pensato nel senso dei grandi ateismi. La controversia sulla trascendenza sembra chiusa, l’aldilà ha definitivamente finito di ardere».

Il paradosso è che questa religione atea unisce mistica e finitudine, diminuisce il ruolo dell’uomo nel mondo a favore della natura, crea mode come quella di girare il mondo a piedi scalzi o di abbracciare gli alberi, è piena di stupore verso l’ignoto ma chiude il discorso a ogni immaginario escatologico.

I numi tutelari di questa Weltanschauung sono Jung e Heidegger, per arrivare a Hillman. Ma si nega veramente Dio? In realtà quello che si rigetta è il Dio cristiano: «Il volto di Dio – scrive ancora Dotolo – diviene più onnicomprensivo, distante da un immaginario legato alla misura, segno di un’immersione nella sacralità del mondo. Esso corrisponde ad alcuni modelli di base quali la coscienza ecologica della creatività dell’universo, le esperienze intuitive ispirate dal principio femminile della spiritualità, la riscoperta del nesso di materia-energia-anima».

Tutto ciò dà luogo a un nomadismo spirituale, a una religione fai da te che rifiuta qualsiasi Chiesa. Dinanzi a queste nuove sfide e provocazioni il cristianesimo non può certo reagire arroccandosi o pensando di combattere una guerra, anche se culturale. Innanzitutto si tratta di riconoscere la genuinità della ricerca religiosa post-secolare e che alcuni suoi segni, dal desiderio di benessere alla volontà di realizzare il proprio io, dalla nuova fenomenologia della mistica all’amore per la terra, non sono affatto lontani da una vera esperienza cristiana.

D’altronde, va anche rilevato che il congedo dal Dio della religione, come annota Dotolo, è anche «la conseguenza di una decostruzione operata dal cristianesimo stesso, in virtù del quale il processo di secolarizzazione non ha promosso un superamento della religione, ma una sua mutazione di senso. La fine dell’equazione fra cristianesimo e religione è, o può essere, l’inizio di un diverso approccio di dire Dio».

Esiste un’abbondante tradizione teologica che tende a separare l’esperienza cristiana dalla religione: basta rileggersi Tillich e Bonhoeffer. Non solo, durante il ‘900 c’è stata una ricchissima elaborazione del pensiero cristiano che ha messo in crisi la metafisica onnicomprensiva che aveva dominato in passato. Guardiamo a cosa ha scritto al riguardo Henri de Lubac: «Il Dio dell’ontologia classica è morto? Può darsi. Negli ultimi secoli abbiamo assistito all’evaporazione razionalista di Dio. Ma era il Dio dei razionalisti. Soffiate e dissipate questo vapore. Non ne saremo turbati, anzi, respireremo meglio. Il Dio vero, quello che non cessiamo di adorare, è altrove».

O ancora, si pensi alla crisi del concetto di onnipotenza di Dio, anche in seguito alle domande suscitate dalla tragedia della Shoah che hanno posto in discussione ogni teodicea. Von Balthasar ha scritto cose illuminanti a proposito di questa svolta da parte del cristianesimo nel vedere Dio, «che non è in primo luogo potenza assoluta, ma amore assoluto, e la cui sovranità non si manifesta nel tenere per sé ciò che gli appartiene, ma nell’abbandonarlo».

È il paradosso dell’incarnazione il vero marchio del cristianesimo, come ha sottolineato Italo Mancini: «L’essere di Cristo, che riassume il senso della presenza di Dio nel mondo, significa la sua impotenza e la nostra impotenza». Concetti ribaditi da pensatrici come Simone Weil e Etty Hillesum. O da un Paul Ricoeur che ha intuito una sorta di “coappartenenza” fra la ricerca filosofica scaturita dall’ateismo e l’interpretazione del messaggio cristiano, anzi l’emergenza di una critica atea all’interno del cristianesimo stesso.

Ma certamente la rinuncia spesso verificatasi da parte della Chiesa di una predicazione sulla vita eterna, che sapesse valorizzare il patrimonio della patristica e della mistica e al contempo non escludesse l’orizzonte dell’esistenza concreta, è uno dei motivi dell’affermarsi della spiritualità senza Dio del nostro tempo, di forme di religiosità capaci di suscitare nuove emozioni. Come ha ben sintetizzato la teologa olandese Catharina Halkes: «Dio non è un Dio statico, ma dinamico. Dio è un verbo, non un sostantivo, fonte di inquietudine e di caos creativo».

Il Dio cristiano è un Dio sorprendente e tenero, non lontano dalle vicende umane, un Dio che conosce la sofferenza e che è relazione. Solo la riscoperta di questo Dio vicino e fragile può cogliere appieno la sfida rappresentata dalla religione post–secolare. Sfida ben colta da questo passo di Jurgen Moltmann: «Il legame di Dio Padre alla sorte di Gesù ha reso impossibile il patriarcato di tipo monarchico. Dio Padre è l’Abbà di Gesù, e solo chi vede questo Figlio vede il Padre; diventa impossibile quell’umanesimo ateo che per l’uomo Gesù prova simpatia ma che non ammette alcun Dio; e diventa impossibile quello spiritismo politeistico che nella natura vede tanti spiriti e valuta detti spiriti a seconda delle forze che possiedono».

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