venerdì 23 luglio 2021
L’imperatore Naruhito ha dato il via alla 32esima edizione delle Olimpiadi moderne in uno stadio vuoto per la pandemia dopo uno spettacolo semplice e intenso e la sfilata dei 206 Paesi partecipanti
Rispetto e speranza, Tokyo 2020 apre i Giochi
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Insieme anche se meno vicini, di corsa ma insieme, rispetto e speranza. Questo è il senso, il riscatto e la promessa. La fatica vestita con una tuta da corsa, il rumore del fiato sotto la mascherina, e tutti i colori del mondo. Quando l’imperatore Naruhito legge il discorso che dichiara ufficialmente aperta la trentaduesima edizione delle Olimpiadi moderne, gli applausi sottili di uno stadio vuoto fanno rumore come quelli di una festa di compleanno di uno scapolo che ha invitato solo due zie anziane. E’ questo il confine, la differenza storica, la maledizione della pandemia che stravolge l’estetica ma nulla può fare contro il senso. Profondo, inattaccabile e ancora universale dei Giochi, l’unico evento sempre al plurale, per così pochi e indistintamente di tutti.

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C’è eleganza, bellezza, coraggio nei passi di questi atleti straordinari che hanno aspettato e sofferto un anno in più per essere qui, pronti a gareggiare ancora, nonostante il nemico che non molla. Tokyo ha provato a combatterlo con una Cerimonia d’apertura ammantata di bianco e di sfumature. Dalla bandiera del Giappone con il sole rosso al centro al tappeto dello stadio Olimpico, candido come i muri di un ospedale. E con il silenzio, il rispetto, il ricordo della sofferenza e del lavoro di medici e infermieri, la celebrazione del sacrificio di tutti, con migliaia di seggiolini vuoti sugli spalti che fanno da cornice a un evento mai visto così.

Doveva essere sobria, è stata minimale, povera di figuranti ricordando la prassi oceanica di tutte le altre edizioni, ma ricchissima di sentimento. Quando la Grecia ha aperto la sfilata dei 206 Paesi è stato come tornare a casa, rivedere l’olimpismo che cammina, la storia che si ripete nonostante tutto. E quando è toccato alla manciata scarsa degli atleti dello eSwatini (l’ex Swaziland) è stato bello pensare che solo qui scopriamo un mondo che non conosciamo.

La maschera sul viso di tutti lascia liberi solo occhi liquidi, c’è tanta emozione dentro. E la voglia di saltare dell’Argentina è lo specchio di un bisogno impellente, oltre l’ostacolo di questa vita stravolta e cupa. Impossibile dimenticare, anche solo per tre ore. Cento contagiati all’interno della famiglia olimpica dal 1 luglio a oggi, 19 nuovi positivi solo ieri. Tre sono atleti provenienti dall’estero, che adesso rimarranno in isolamento per 14 giorni, mentre tra gli altri 16 accreditati ci sono tre giapponesi che lavorano negli impianti, e tre giornalisti la nazionalità dei quali non è stata comunicata.

Non mollerà il Covid, questo purtroppo è il podio più probabile. La speranza è che non vinca, che resti solo il sottofondo, anche se mostruosamente presente. Lo meritano questi ragazzi con la giacca e le scarpe da ginnastica, le loro bandierine, il cellulare in mano per fare un selfie alla vita e al loro grande momento di gloria. Bella gente, come gli italiani che sfilano per diciottesimi, in tuta Armani con improbabile tricolore stilizzato davanti. Prima di arrivare allo stadio l’idea vincente: la nazionale ha mandato un videomessaggio di auguri al presidente Mattarella per i suoi 80 anni con tanto di coro d’ordinanza. Poi tutti dietro a Elia Viviani e Jessica Rossi, portabandiera gonfi di felicità.

Il resto è attesa, e la fiamma che si accende sulle medaglie. Se le Olimpiadi devono essere lo specchio nel quale lo spirito del pianeta si guarda ogni volta – come la cerimonia inaugurale ci ha ripetuto fino allo stordimento – il Giappone pauroso, contraddittorio e un po’ ottuso ma pervicacemente gentile, è specchio del nostro tempo e del nostro mondo. Quindi è il luogo perfetto per ospitarle. I Giochi sanno che tutto è cambiato e nulla sarà più come prima. Sanno che sarebbe doveroso scandalizzarsi, come si fa a ogni edizione, per l'ipocrisia della favola olimpica, per la disonestà dell’abisso che separa un cestista americano che è qui anche se guadagna 40 milioni di dollari l’anno, da un mezzofondista della Somalia, che di suo quando corre ha solo la sabbia sotto i piedi. Qui però stanno avvolti sotto lo stesso mantello a cinque cerchi. E per questo che l’Olimpiade resta comunque un sogno che vogliamo fare, una finzione terribilmente vera nella quale vogliamo credere, un vizio che non riusciamo a toglierci.

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