Visto da lontano, il campo di rifugiati di Kiziba appare come una macchia bianca che si estende tra le colline dolci e rotondeggianti della regione di Kibuye, nell’Ovest del Ruanda. Man mano che ci si avvicina, ci si rende conto che a dipingere quel bianco indefinito sono i teli di plastica che fanno da tetto alle case, una accalcata all’altra, dei diciottomila rifugiati congolesi che ci vivono da oltre quindici anni. Juvenal Kasungo, cinquantatré anni, è uno di loro. Siede su un piccolo sgabello di legno appena fuori dalla sua piccola abitazione fatta di terra, identica a tutte le altre. I congolesi sono famosi per avere un’aria perennemente gioviale, eppure lo sguardo di Juvenal è dimesso e rivolto verso il basso. «Sono fuggito dal mio Paese nel 1996 a causa della guerra – racconta –. Quando sono arrivato in questo campo di rifugiati pensavo che ci avrei trascorso al massimo qualche mese e che poi sarei tornato a casa mia. Invece, dopo quindici anni, io e la mia famiglia siamo ancora qui, come intrappolati in un incubo dal quale non possiamo uscire». La permanenza prolungata nei campi di rifugiati è il destino comune per circa cinquantacinquemila uomini, donne e bambini originari di Nord e Sud Kivu, nell’est della Repubblica democratica del Congo, che vivono in tre grandi campi in Ruanda. Il dramma, per tutti loro, è soprattutto quello di aver perduto l’identità e di non avere una terra dove sentirsi a casa. Nonostante vivano da numerosi anni in Ruanda, e i loro figli siano nati in questo Paese, i rifugiati continuano a essere trattati come tali e gli sforzi per integrarli nella comunità locale sono pressoché nulli. Dall’altro lato, sebbene la guerra in Congo si sia ufficialmente conclusa nel 2003, l’instabilità continua a farla da padrone specialmente nei due Kivu. Qui, infatti, gli scontri all’ordine del giorno tra esercito congolese e numerosi gruppi armati, e le violenze, i saccheggi e gli stupri nei villaggi, rendono il rimpatrio un’ipotesi ancora molto lontana dalla realtà per i rifugiati in Ruanda. In più, come evidenziato in un recente studio di International Refugee Rights Initiative, i rifugiati congolesi, che appartengono all’etnia tutsi, ritornando nell’Est del Congo potrebbero incontrare la stigmatizzazione della popolazione locale di etnia hutu, che li considera «troppo ruandesi» o addirittura affiliati all’attuale governo tutsi al potere a Kigali. Rimpatriare i rifugiati congolesi di origine tutsi in Congo, da questa prospettiva, sarebbe visto come un tentativo del Ruanda di occupare le terre tanto ricche di minerali preziosi dei due Kivu. «Dopo quindici anni di vita nel campo di Kiziba sento che sto perdendo la mia cultura personale e che anche i miei tre figli stanno crescendo senza radici profonde – racconta Juvenal –. Qui non c’è futuro, non possiamo costruire la nostra vita. Non viviamo in Ruanda, ma siamo rinchiusi in un recinto all’interno del Ruanda dal quale non possiamo uscire e dove siamo costretti a dipendere in tutto e per tutto dagli aiuti delle organizzazioni internazionali, a partire dal cibo che per giunta è insufficiente. Per esempio, non riceviamo il latte e sono costretto a mandare i mie bambini a scuola senza poter dare loro la colazione». Anche le condizioni igieniche e sanitarie all’interno del campo rappresentano un problema per i rifugiati, che si ritrovano a vivere in case di sedici metri quadrati di superficie, contro i quarantacinque previsti dagli standard internazionali, dove in alcuni casi vivono fino a dieci persone. Tutte queste ragioni fanno si che Juvenal non abbia dubbi: se potesse tornerebbe al suo villaggio a Rutshuru, in Nord Kivu, dove, è convinto, le sue condizioni di vita sarebbero nettamente migliori anche dal punto di vista economico. «In Congo possedevamo un pezzo di terra, che ci permetteva di vivere tranquillamente dei prodotti dell’agricoltura. Il Congo, il mio Congo, è una terra talmente ricca e fertile che procurarsi di che sfamarsi è davvero facile. In Ruanda, invece, trovare un lavoro o un pezzo di terra da coltivare è impossibile perché il Paese è troppo piccolo e sovrappopolato».
Anche Vincent Karangiwa, di ventisette anni, è stanco di vivere una vita da rifugiato. A differenza di Juvenal, tuttavia, il suo sogno non è quello di ritornare in Congo, dal quale è fuggito con la sua famiglia quando aveva appena dodici anni, bensì quello di andare a vivere in Canada o negli Stati Uniti, attraverso il cosiddetto programma di resettlement dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unhcr). Questo programma, tuttavia, coinvolge una percentuale talmente bassa di individui (appena l’un per cento dei rifugiati nel mondo) per essere considerata una soluzione duratura alla permanenza protratta dei rifugiati congolesi in Ruanda. «Sento che sto sprecando la mia gioventù qui dentro – è il commento di Vincent – e che non posso fare niente per migliorare la mia situazione. La cosa più brutta è che per noi giovani non c’è niente da fare. Non ci sono spazi per socializzare o per praticare delle attività sportive. Mi guardo intorno, anche all’interno della mia stessa famiglia, e non vedo che rassegnazione. Credo che il grande rischio per un giovane come me, cresciuto in un campo di rifugiati, sia quello di abbandonarsi alla passività e di perdere la speranza nel futuro».